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Vicende modificative dell’Ente e Responsabilità 231

 Le vicende modificative dell’ente: l’attribuzione della responsabilità ai sensi del D. Lgs. s. n. 231/2001 e il ruolo dell’Organismo di Vigilanza

– pubblicato il 9 giugno 2021–

 

Il D. Lgs. s. n. 231/2001 contempla una sezione di norme che disciplinano i casi in cui l’ente compia un’operazione societaria straordinaria che determini una modificazione della struttura organizzativa. Si tratta in particolare delle operazioni di: trasformazione, fusione, scissione e cessione d’azienda disciplinate agli artt. 28 – 33 del D. Lgs. s. n. 231/2001 e delle relative conseguenze in caso di commissione dei reati anteriormente alla data di efficacia dell’operazione straordinaria.

 

  1. Gli istituiti della trasformazione, fusione e scissione

Preliminarmente alla trattazione degli effetti delle operazioni straordinarie sulla responsabilità dell’ente che abbia commesso un illecito ex D. Lgs. s. n. 231/2001, si rende opportuno fornire un breve inquadramento normativo degli istituti sopra citati.

 

1.1 La trasformazione

La trasformazione, disciplinata dagli artt. 2498 – 2500 novies c.c., determina il cambiamento del tipo di organizzazione sociale oppure il mutamento dello scopo della società o ente.

Con la trasformazione cambia l’intero assetto organizzativo della società. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che la trasformazione non comporta l’estinzione della società preesistente e la nascita di una nuova società[1]: si tratta della medesima società che continua a operare in un rinnovata veste giuridica e che “conserva i diritti e gli obblighi e prosegue tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione” (art. 2498 c.c.).

La trasformazione può distinguersi in:

  1. omogenea quando il cambiamento riguarda solo il modello di società, per esempio il passaggio da una società in nome collettivo a una società per azioni o viceversa;
  2. eterogenea quando invece il cambiamento riguarda lo scopo economico della società o dell’ente, per esempio la trasformazione di società cooperative a mutualità non prevalente in società di capitali (s.p.a., s.r.l. ecc.) e viceversa.

1.2 La fusione

La fusione, disciplinata dagli artt. 2501 – 2505 quater c.c., determina l’unione di due o più società in una sola.

Mediante la fusione si attua una concentrazione di imprese societarie in un’unica struttura organizzativa che continua l’attività di tutte le società preesistenti. Pertanto, la società incorporante o che risulta dalla fusione assume “i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione” (art. 2504 – bis c.c.).

La fusione può distinguersi in:

  1. fusione in senso stretto quando si realizza la costituzione di una società che prende il posto di tutte le società che si fondono;
  2. fusione per incorporazione quando si realizza l’assorbimento in una società preesistente di una o più altre società.

1.3 La scissione

La scissione, disciplinata dagli artt. 2506 – 2506 quater c.c., determina il trasferimento di una parte o di tutto il patrimonio di una società a una o più società preesistenti o di nuova costituzione.

La scissione può distinguersi in:

  1. scissione totale quando l’intero patrimonio della società che si scinde viene trasferito a più società. L’attività della società scissa continua tramite le società beneficiarie della scissione che assumono i diritti e gli obblighi corrispondenti alla quota di patrimonio loro trasferita (art. 2506 quater c.c.);
  2. scissione parziale quando solo una parte del patrimonio della società che si scinde viene trasferita ad una o più società. La società scissa perciò resta in vita sia pure con un patrimonio ridotto e continua l’attività parallelamente alle società beneficiarie.
 
 
  1. La responsabilità dell’ente per i fatti di reato commessi anteriormente alle operazioni straordinarie di trasformazione, fusione e scissione

Si procede ora a un’analisi degli artt. 28 – 32 del D. Lgs. n. 231/2001 che, come anticipato, regolano l’incidenza sulla responsabilità dell’ente delle vicende modificative connesse a operazioni di trasformazione, fusione o scissione.

La ratio dell’introduzione di tali norme si evince dalla lettura della relazione ministeriale al D. Lgs. s n. 231/2001 nella quale vengono prese in considerazione due esigenze contrapposte: “da un lato, quella di evitare che tali operazioni si risolvano in agevoli modalità di elusione della responsabilità; dall’altro, quella di escludere effetti eccessivamente penalizzanti, tali da porre remore anche ad interventi di riorganizzazione privi degli accennati intenti elusivi. Il criterio di massima al riguardo seguito è stato quello di regolare la sorte delle sanzioni pecuniarie conformemente ai principi dettati dal codice civile in ordine alla generalità degli altri debiti dell’ente originario, mantenendo, per converso, il collegamento delle sanzioni interdittive con il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato.”.

Il principio ispiratore è quindi quello di contrastare fenomeni elusivi della normativa di cui al D. Lgs. n. 231/2001 mediante l’attuazione di operazioni societarie che possano incidere sulla struttura dell’ente “colpevole”.

Il legislatore ha pertanto previsto che la responsabilità dell’ente sopravvive alle operazioni straordinarie e viene trasferita congiuntamente ai diritti e agli obblighi facenti capo alle società interessate dalle operazioni societarie. In particolare, le sanzioni pecuniarie soggiacciono al medesimo regime previsto dalla normativa civilistica per i debiti dell’ente originario, mentre le sanzioni interdittive rimangono “ancorate” al ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato, ciò al fine di evitare il pericolo che le sanzioni interdittive vengano inflitte a strutture organizzative estranee all’illecito.

In applicazione dei principi appena esposti e nel solco della disciplina civilistica, il D. Lgs. n. 231/2001 prevede un continuum di responsabilità dell’ente, in particolare:

 

  • in tema di trasformazione, l’art. 28 D. Lgs. n. 231/2001 prevede che: “Nel caso di trasformazione dell’ente, resta ferma la responsabilità per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto”.

Trattasi di una previsione coerente con la natura dell’istituto della trasformazione, il quale implica un semplice mutamento del modulo organizzativo, che non incide sull’identità dell’ente.

Si assiste pertanto a una ‘perpetuatio’ della responsabilità piena e incondizionata[2] dell’ente che risulta dalla trasformazione.

In forza del principio della continuità della responsabilità, all’ente trasformato sono applicabili le sanzioni pecuniarie, interdittive e la confisca ex art. 19, D. Lgs. n. 231/2001 derivanti dalla commissione di reati presupposto antecedente alla data di efficacia della trasformazione.

 

  • in tema di fusione, l’art. 29 D. Lgs. n. 231/2001 stabilisce che: “Nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”.

Questa previsione sancisce la perfetta e necessaria trasmissibilità all’ente risultante dalla fusione delle sanzioni pecuniarie e interdittive afferenti a reati commessi anteriormente alla data di efficacia della fusione.

È stato osservato in giurisprudenza che la regola per cui l’ente risultante dalla fusione sia punibile anche per gli illeciti commessi dalla società incorporata, prima dell’operazione di fusione per incorporazione, non comporta una violazione del principio della responsabilità penale, in quanto, alla luce del principio di continuità nella responsabilità, il fenomeno della fusione non produce l’estinzione delle società fuse o incorporate, le quali “sono caratterizzate da una perdita della loro individualità a seguito di una modifica dei loro atti costitutivi e dei loro statuti[3].

Proprio in relazione alle ipotesi di fusione di società, la Corte di Giustizia U.E. ha richiamato più volte il principio di “effettività” del sistema sanzionatorio, per affermare che la normativa interna degli Stati deve assicurare l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’ente che abbia incorporato quello che ha commesso l’infrazione, potendo, altrimenti, le imprese sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa[4].

In dottrina è stato peraltro precisato che la responsabilità in parola prescinde dal preventivo accertamento dell’illecito in capo all’ente originario, ‘coprendo’ anche gli illeciti la cui verifica giudiziale non fosse ancora iniziata alla data di perfezionamento della fusione[5].

Con specifico riguardo all’applicazione delle sanzioni interdittive, la Relazione Ministeriale ben chiarisce che dette misure sono applicabili alla specifica attività (ramo aziendale) alla quale si riferisce l’illecito attribuito all’ente e non indiscriminatamente all’ente fuso nel suo complesso, conformemente a quanto previsto dall’art. 14, D. Lgs. n. 231/2001. Dal tenore della norma si desume che il Legislatore, richiama ancora una volta l’attenzione del Giudice sulla circostanza che la sanzione interdittiva non deve ispirarsi a un criterio applicativo generalizzato e indiscriminato, ma deve essere limitata al ramo aziendale nel quale è stato commesso il reato, in ossequio al principio di proporzionalità della pena.

Deve inoltre segnalarsi che a favore dell’ente risultante dalla fusione è riconosciuta la facoltà di chiedere la sostituzione delle sanzioni interdittive con sanzioni pecuniarie ai sensi del combinato disposto degli artt. 17 e 31, comma 2, D. Lgs. n. 231/2001.

All’ente risultante dalla fusione sono altresì applicabili le sanzioni pecuniarie, l’obbligo del risarcimento del danno e la confisca ex art. 19, D. Lgs. 231/2001. Su quest’ultima misura, la Suprema Corte ha espresso tale orientamento: “Deve, pertanto, escludersi che la confisca (ed il sequestro preventivo ad essa finalizzato) disposta nei confronti della società che ha partecipato alla fusione per incorporazione, si estenda automaticamente alla società incorporante, solo sulla base della regola, fissata in sede civilistica dall’art. 2504 bis c.c. […]. Tale regola, infatti, (che, peraltro, trova corrispondenza nella previsione dell’art. 29, D. Lgs. 231/2001 […]) va coordinata con i richiamati principi volti a tutelare la posizione del terzo di buona fede, estraneo al reato, perché, se così non fosse, la società incorporante o quella risultante dalla fusione si troverebbe esposta alle conseguenze di natura penale di reati commessi da altri, unicamente in base alla posizione formale di soggetto partecipante alla fusione”.[6]

 

  • in tema di scissione, l’art. 30 D. Lgs. n. 231/2001 prevede che: “Nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto, salvo quanto previsto dal comma 3.

Gli enti beneficiari della scissione, sia totale sia parziale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto. L’obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato.

Le sanzioni interdittive relative ai reati indicati nel comma 2, si applicano agli enti cui è rimasto o è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell’ambito del quale il reato è stato commesso».

 

L’articolo in commento distingue i casi di scissione parziale dalla scissione totale.

Nel caso di scissione parziale – ossia quando l’ente scisso abbia trasferito solamente una parte del proprio patrimonio e conseguentemente continui la propria attività – l’ente scisso rimane responsabile per i reati commessi prima che la scissione abbia prodotto effetto ex art. 2506 quater, comma 1, c.c.

L’ente scisso resta quindi responsabile in virtù del principio di imputazione soggettiva della “colpa in organizzazione” e potrà risultare destinatario delle sanzioni interdittive nel caso in cui il ramo di attività nel quale è stato commesso l’illecito sia rimasto nella propria parte di patrimonio non trasferito alla società beneficiaria.

Per quanto riguarda la sorte dell’obbligazione per il pagamento delle sanzioni pecuniarie, il comma 2 dell’art. 30 dispone, che, indipendentemente dal tipo di scissione, totale o parziale, gli enti beneficiari dell’operazione sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi prima alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza chiarendo che “In materia di responsabilità delle persone giuridiche gli enti risultanti da scissione sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie per i reati commessi dall’ente scisso prima dell’operazione di scissione.[7]

Trattasi, invero, di una responsabilità solidale limitata al valore effettivo del patrimonio netto trasferito a ciascun ente beneficiario: limite che però non opera se agli enti beneficiari è stato assegnato il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato. In quest’ultimo caso, la società beneficiaria del ramo di azienda “incriminato” risponderà, senza alcun limite, sia per il pagamento delle sanzioni pecuniarie sia per le sanzioni interdittive.

Per quanto riguarda invece la sorte delle sanzioni interdittive, l’art. 30, comma 3, prevede l’applicazione in via esclusiva agli enti ai quali è rimasto o è stato trasferito, anche solo in parte, il ramo di attività nel quale è stata realizzata la vicenda criminosa. Ai sensi del successivo art. 31, comma 2, è previsto che l’ente nei cui confronti risulti applicabile la sanzione interdittiva può chiedere la sostituzione della sanzione interdittiva con la sanzione pecuniaria, qualora siano realizzate le condizioni previste dall’art. 17, D. Lgs. n. 231/2001 in tema di riparazione delle conseguenze da reato[8].

 

 

  1. La cessione d’azienda e la responsabilità solidale del cessionario

Tra le operazioni straordinarie disciplinate dal D. Lgs. n. 231/2001 rientra anche la cessione d’azienda, regolamentata dall’art. 33. Trattasi di un’operazione societaria che si differenzia nettamente dalla trasformazione, fusione e scissione sopra esaminate, in quanto mediante quest’ultime operazioni si attua una modifica sul piano soggettivo e giuridico-organizzativo dell’ente, mentre la cessione d’azienda incide principalmente sul piano oggettivo ed economico dell’ente.

Per cessione d’azienda deve intendersi, a norma degli artt. 2555 ss. c.c., il trasferimento della proprietà o del godimento del complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

In tema di responsabilità per i reati commessi nell’ambito dell’attività ceduta l’art. 33, D. Lgs. n. 231/2001 prevede che: “Nel caso di cessione dell’azienda nella cui attività è stato commesso il reato, il cessionario è solidalmente obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione dell’ente cedente e nei limiti del valore dell’azienda, al pagamento della sanzione pecuniaria.

L’obbligazione del cessionario è limitata alle sanzioni pecuniarie che risultano dai libri contabili obbligatori, ovvero dovute per illeciti amministrativi dei quali egli era comunque a conoscenza.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nel caso di conferimento di azienda”.

L’articolo in commento prevede quindi una responsabilità a titolo di garanzia della società cessionaria (società che ha acquisito la proprietà o il godimento dell’azienda o ramo di essa), la quale è solidalmente obbligata al solo pagamento delle sanzioni pecuniarie inflitte all’ente cedente.

Va però precisato che la responsabilità solidale e sussidiaria del cessionario è:

  • ascrivibile nel caso in cui la preventiva escussione del cedente non fosse andata a buon fine;
  • limitata al valore dell’azienda ceduta;
  • condizionata al fatto che dette sanzioni risultino dai libri contabili obbligatori ovvero siano state portate a conoscenza del cessionario mediante altri canali informativi.

Il cedente resta quindi il soggetto obbligato principale al pagamento della sanzione pecuniaria e l’unico destinatario delle sanzioni interdittive.

Resta esclusa nei confronti del cessionario l’applicabilità di ogni altra sanzione interdittiva e quindi anche delle misure cautelari, del sequestro e della confisca. In tal senso si è peraltro espressa la Suprema Corte che ha chiarito che “Nel caso di cessione di azienda i beni dell’ente cessionario non possono essere sottoposti alla confisca per equivalente del profitto del reato commesso prima della cessione, atteso che, ai sensi dell’art. 33, D. Lgs. s. n. 231 del 2001, l’ente cessionario risponde in solido con quello cedente esclusivamente del pagamento della sanzione pecuniaria comminata per l’illecito a quest’ultimo addebitabile[9].

 

 

  1. L’attività dell’Organismo di Vigilanza nell’ambito delle operazioni straordinarie

Nell’ambito delle operazioni straordinarie, una delle attività propedeutiche che riveste maggior rilievo per le società interessate all’operazione è quella della c.d. due diligence, ossia l’attività finalizzata alla raccolta e all’analisi di una serie di informazioni societarie, contabili, finanziarie, legali e fiscali nonché ogni altra tipologia di dato o elemento utile a comprendere la convenienza e la fattibilità dell’operazione programmata.

Sulla scorta di quanto previsto dalla normativa civilistica e dagli articoli del D. Lgs. n. 231/2001 sopra illustrati in tema di responsabilità dell’ente, l’indagine della due diligence non può quindi prescindere dalla richiesta all’ente “target” (ente che verrà incorporato o scisso) di riferire in merito all’implementazione e all’aggiornamento di un Modello di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lgs. n. 231/2001, nonché in merito a potenziali contestazioni ovvero all’avvio di procedimenti penali o condanne inflitte per la violazione dalla normativa in parola.

Si renderà quindi opportuno chiedere copia del Modello ex D. Lgs. 231/2001 in vigore, nonché copia della documentazione relativa al Gap Analysis e al Risk Assessment.

Nel caso in cui fossero pendenti dei procedimenti penali inerenti ai reati presupposto previsti nel D. Lgs. n. 231/2001si renderà altresì opportuno chiedere ai difensori che assistono l’ente una relazione sullo stato del procedimento e sul prevedibile esito dello stesso.

Una fonte di informazioni che può rilevarsi di estrema importanza, ai fini che qui interessano, è la documentazione elaborata dall’Organismo di Vigilanza dell’ente “target nello svolgimento delle proprie funzioni. A titolo esemplificativo potrà essere richiesta la seguente documentazione:

  • le relazioni semestrali e annuali;
  • i verbali periodici e le relazioni di controllo;
  • le comunicazioni informative e/o urgenti all’organo gestorio e ai sindaci.

Dall’esame di tale documentazione si dovrebbe, infatti, comprendere l’efficacia del Modello adottato dall’ente target e in generale il livello di compliance ex D. Lgs. n. 231/2001.

In tale fase di indagine si reputa altresì opportuno rendere partecipe anche l’Organismo di Vigilanza dell’ente incorporante o dell’ente beneficiario, il quale dovrà essere edotto degli esiti dell’attività di analisi e potrà svolgere le proprie indipendenti valutazioni, richiedendo qualora ne ravvisasse la necessità i più opportuni chiarimenti oppure suggerendo l’acquisizione di ulteriore documentazione tra la quale può segnalarsi:

  • i bilanci di esercizio degli ultimi 3 anni per verificare la voce “fondi rischi” nella quale potrebbe essere rinvenuta l’iscrizione di poste rappresentative di perdite future connesse a procedimenti di accertamenti di illeciti ex D. Lgs. n. 231/2001;
  • certificato dell’anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dell’anagrafe dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato richiesto dall’ente interessato, di cui all’art. 31, d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313;
  • richiesta di comunicazione delle annotazioni delle notizie di illecito amministrativo dipendente da reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.
  • copia del sistema delle deleghe di funzioni gestorie e dei mansionari.

L’Organismo di Vigilanza dovrà inoltre essere costantemente aggiornato da parte dell’organo gestorio in merito agli sviluppi relativi alle operazioni straordinarie e più in generale sul piano strategico e di sviluppo dell’ente stesso.

Negli specifici casi di fusione e scissione, l’Organismo di Vigilanza potrà in particolare chiedere di visionare:

  • in caso di fusione:

– il progetto di fusione ex art. 2501-ter c.c.;

– le relazioni dell’organo amministrativo e le relazioni degli esperti ex artt. 2501-quinquies e 2501-sexies c.c.;

– l’atto di fusione ex art. 2504.

  • in caso di scissione:

– il progetto di scissione ex art. 2506-bis c.c.;

– le relazioni dell’organo amministrativo, le relazioni degli esperti ex art. 2506-ter;

– l’atto di scissione.

 

Nulla esclude che l’Organismo di Vigilanza dell’ente incorporante o dell’ente beneficiario svolga un incontro con l’Organismo di Vigilanza dell’ente target per compiere le più opportune verifiche e valutazioni in merito all’operazione straordinaria prospettata dai rispettivi organi gestori.

Il tema della rilevanza della due diligence in materia di operazioni straordinarie ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001 è stata di recente messa in evidenza anche dalla Suprema Corte di Cassazione che così si è pronunciata: “Trattandosi di un’operazione rimessa alla libera determinazione dei soggetti, la due diligence che deve accompagnare la vicenda modificativa offre in ogni caso alla società incorporante le garanzie […] per essere pienamente ‘consapevole’ dei rischi nell’acquisire una società ‘attinta’ da illeciti amministrativi.” [10].

 

In conclusione, al fine di compiere la più efficace valutazione preventiva sulla convenienza e sulla fattibilità dell’operazione straordinaria, si ritiene che il coinvolgimento dell’Organismo di Vigilanza sia un elemento imprescindibile poiché può costituire un valido supporto a favore dell’organo gestorio nella valutazione del rischio aziendale connesso all’acquisizione di nuovi asset che potrebbero essere forieri di responsabilità ex D. Lgs. n. 231/2001.

 

 

Laura Dal Prato

Avvocato Del Foro Di Ravenna

 

[1] Tra le tante, Cass. civ., S.U., 31 ottobre 2007, n. 23019,

[2] NAPOLEONI, Le «vicende modificative»: trasformazione, fusione, scissione e responsabilità degli enti, in Rivista231, 2/2007, 143

2014, sub art. 28, 814

[3] Cass. pen., Sez VI, 12 dicembre 2016, n. 11442

[4] Tra le tante, sent. 11 dicembre 2007, C – 280/06

[5] NAPOLEONI, op. cit., 148

[6] Cass. pen., sez. V, 27 ottobre 2015, n. 4064 e Cass. pen., 29 gennaio 2016, n. 4064.

[7] Cons. Stato Sez. VI, 14/01/2019, n. 320

[8] Art. 17 D. Lgs. n. 231/2001 Riparazione delle conseguenze del reato

Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;

  1. b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
  2. c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.

[9] Cass. pen. Sez. VI Sent., 11/06/2008, n. 30001

[10] Cass. pen., 12 febbraio 2016, n. 11442.

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Riders, caporalato digitale e misure di prevenzione: il caso UBER

Riders, caporalato digitale e misure di prevenzione: il contrasto alle nuove forme di sfruttamento del lavoro nelle decisioni del Tribunale di Milano sul caso UBER

– pubblicato il 17 maggio 2021–


  1. Premessa

La Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, con il decreto 3 marzo 2021 ha disposto la revoca della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34, co. 1, Codice Antimafia precedentemente disposta con decreto n. 9/2020 nei confronti della società Uber Italy S.r.l., controllata italiana della nota multinazionale del delivery Uber Portier BV.

Tale provvedimento – da leggersi necessariamente insieme al decreto genetico della misura n. 9/20 – e più in generale l’intera vicenda processuale nell’ambito della quale sono stati adottati, appaiono di particolare interesse sotto tre diversi profili.

In primo luogo, per come costituiscano la cartina tornasole della idoneità dell’art. 603 bis c.p., nella sua nuova formulazione, a colpire anche forme avanzate e non convenzionali di caporalato.

In secondo luogo, per la pluralità degli strumenti preventivi in grado di tutelare il fisiologico andamento del mercato del lavoro, e, più nello specifico, di evitare forme di sfruttamento dei lavoratori.

Da ultimo – ed è ciò che rileva maggiormente in questa sede – per la scelta, tutt’altro che scontata, del Tribunale di Milano di procedere con il combinato utilizzo di due strumenti di prevenzione: l’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34, D. Lgs. n. 159/2011, come riformulata dalla L. n. 161/2017, e il modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dagli artt. 5 e 6, D. Lgs. n. 231/2001.


  1. La vicenda giudiziaria

Il procedimento di prevenzione sfociato nei decreti in commento trova origine nell’ambito di un’indagine volta ad accertare la possibile commissione del reato di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro in danno dei c.d. “riders” da parte delle imprese che ne gestivano le consegne.

La Procura di Milano, quale autorità giudiziaria proponente, segnalava come l’attività investigativa svolta nell’ambito di tale procedimento avesse delineato un solido quadro indiziario circa la sussistenza di una attività agevolatrice rilevante ai sensi dell’art. 34, D. Lgs. n. 159/2011, posta in essere da Uber Italy S.r.l. nella realizzazione del reato di cui all’art. 603 bis c.p.

Tale delitto, in ipotesi d’accusa, veniva contestato a cinque managers della stessa società proposta insieme a due società intermediarie (Flash Road City e FRC S.r.l.) che si occupavano di reclutare e gestire le flotte di fattorini per conto di Uber in virtù di specifici accordi contrattuali di prestazioni tecnologiche.

Tali contratti, dalla lettura delle motivazioni del decreto, sembrerebbero non avere costituito altro che una mera fornitura illecita di manodopera, in quanto priva dei requisiti di liceità di un appalto di servizi: organizzazione dei mezzi in capo all’appaltatore, esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, assunzione del rischio di impresa.

Veniva infatti riscontrato che, in virtù di tali accordi, i riders, anche se si trovavano concretamente ad operare per conto e sotto le direttive di Uber, venivano reclutati dalle due società intermediarie in virtù di un rapporto contrattuale di collaborazione occasionale.

In particolare, tali società intermediarie definite “fleet partners”, reclutavano le flotte di fattorini tra soggetti vulnerabili sotto un profilo personale e sociale. Si trattava in particolare di cittadini extracomunitari, spesso dimoranti presso centri di accoglienza, a rischio di espulsione ed in grande difficoltà economica, che, in virtù di ciò si trovavano costretti ad accettare condizioni lavorative svalutanti, se non a subire vere e proprie condotte vessatorie e di sfruttamento della manodopera.

In questo modo, con la consapevolezza e l’agevolazione da parte di Uber, le società intermediarie generavano guadagni grazie al rilevante abbattimento dei costi del personale, in assoluto spregio dei diritti dei lavoratori.

A fronte di tale quadro, il Tribunale di Milano, con decreto 9/2020, ritenendo sussistente in capo a Uber Italy S.r.l. – qualificata come unità organizzativa di Uber Portier BV operante sul territorio italiano – l’agevolazione delle società intermediarie nella commissione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. applicava a questa la misura della amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia al fine di risanare l’azienda riportandone il relativo business entro i binari della legalità.

Per il raggiungimento di tale scopo, il Tribunale si è spinto sino ad indicare all’amministratore giudiziario specifici interventi e specifiche attività da svolgersi di concerto con l’organo amministrativo di Uber Italy S.r.l. Tra queste, la mappatura dei rapporti tra la società proposta e le altre aziende facenti parte del “Gruppo Uber”, l’analisi dei rapporti contrattuali in essere con i lavoratori del settore delivering al fine di comprendere se operino in condizioni di sfruttamento e la valutazione circa l’esistenza e l’idoneità del Modello Organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01.

Venivano così poste le condizioni necessarie per un penetrante ed effettivo controllo sull’attività degli organi gestori salvaguardando al contempo la continuità e il normale esercizio dell’attività di impresa da parte di Uber Italy S.r.l. senza procedere a trasferire all’amministratore giudiziario il quotidiano svolgimento della stessa nella sua interezza.

Poste tali indicazioni, a distanza di neanche un anno dall’applicazione della misura di prevenzione, con decreto 21 marzo 2021 il Tribunale di Milano, accertata l’osservanza delle prescrizioni impartite, ha quindi provveduto alla revoca della misura di prevenzione in precedenza disposta.


3.1. I profili di interesse dei decreti: l’esteso ambito applicativo dell’art. 603 bis c.p. nella sua attuale formulazione

Come anticipato, la vicenda giudiziaria in esame assume particolare interesse in primo luogo nella misura in cui costituisce dimostrazione della versatilità applicativa dell’art. 603 bis c.p. nella sua formulazione successiva alla L. 199/16.

È noto, infatti, che fino al 2011 il contrasto al c.d. “caporalato” trovasse una tutela penale unicamente in poche fattispecie contravvenzionali, fondamentalmente poste a tutela di altre norme di tipo lavoristico, e sprovviste di efficacia deterrente in quanto punite con la pena dell’ammenda e agevolmente oblazionabili.

In assenza di un impianto normativo in grado di sanzionare le forme più gravi di sfruttamento dei lavoratori, la Giurisprudenza – come spesso accade – si è trovata a dover sopperire a tale mancanza del Legislatore facendo ricorso ad altre figure delittuose (quali riduzione in schiavitù, sequestro di persona, violenza privata o estorsione).

Restavano tuttavia al di fuori del perimetro di un’adeguata tutela penale tutte quelle ipotesi in cui i diritti del lavoratore venivano compromessi in maniera assai incisiva, senza che tuttavia lo stesso si trovasse in uno stato di completo assoggettamento e costrizione da parte del datore di lavoro o dell’intermediario (il c.d. “caporalato grigio”).

A fronte di ciò, un primo passo in avanti nella direzione di una tutela piena del lavoratore si è avuto con l’introduzione, ad opera della L. n. 138/2011, del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro inserito all’art. 603 bis c.p.

Tuttavia, sin da subito appariva evidente la ridotta portata applicativa di tale disposizione, che, all’atto pratico scontava alcuni limiti strutturali, quali la necessità che l’attività di sfruttamento dovesse avvenire secondo le specifiche modalità della violenza, della minaccia o dell’intimidazione, oltre a particolari difficoltà in punto di prova dello svolgimento in forma organizzata dell’attività di reclutamento di manodopera. Oltre a ciò, l’art. 603 bis c.p. andava a colpire la sola attività di intermediazione, lasciando impunita la condotta di impiego da parte del datore di lavoro.

Presa consapevolezza di ciò, il legislatore è nuovamente intervenuto con la L. 199/2016 per modificare il testo dell’art. 603 bis c.p. ed eliminarne i limiti applicativi.

Tale intervento si è dimostrato efficace e l’attuale formulazione della norma, come dimostrato dai provvedimenti in commento, sembra essere in grado di modulare e adeguare la risposta sanzionatoria rispetto alla gravità dell’illecito.

La norma spicca per la capacità di trovare applicazione non più solo in determinati settori produttivi (tradizionalmente quello agricolo e quello edile) ma a tutte le ipotesi in cui il prestatore di lavoro si trovi costretto ad accettare situazioni di sfruttamento per far fronte al proprio stato di bisogno: infatti, rispetto alla formulazione antecedente alla riforma del 2016, viene punita non solo la condotta di “reclutamento”, bensì anche quella (“diretta”) di utilizzazione, assunzione e impiego di manodopera anche mediante reclutamento.

Inoltre, la punibilità del reato non viene più subordinata alle modalità attuative di violenza, minaccia o intimidazione, prevedendo per tali casi un’aggravante speciale, così da procedere con una risposta sanzionatoria proporzionale al concreto disvalore del fatto.

Grazie a tali formulazioni, la norma si trova quindi ad operare ad ampio spettro, anche rispetto a situazioni di sfruttamento particolarmente subdole o sfumate, senza tuttavia andare a pregiudicare il principio di legalità, in quanto la tipicità della norma viene poi garantita tramite l’illustrazione di una serie di indici legali sintomatici della sussistenza delle condizioni di sfruttamento.

L’art. 603 bis c.p. appare quindi perfettamente idoneo ad inquadrare la vicenda in esame, da alcuni definita come “caporalato digitale” caratterizzata da una forma occulta e celata di sfruttamento da parte del datore di lavoro e di approfittamento da parte dei soggetti reclutatori, ed in cui la piattaforma internet viene a costituire “uno schermo per il datore di lavoro in grado di spersonalizzare le sue tradizionali prerogative”. [1]


3.2. I profili di interesse dei decreti: la pluralità di strumenti preventivi dello sfruttamento dei lavoratori e dell’alterazione del mercato del lavoro

I decreti in esame, oltre che per avere inquadrato quello che viene ormai definito “sfruttamento digitale dei ciclofattorini” sotto la nuova formulazione dell’art. 603 bis c.p., rilevano inoltre per costituire la concreta applicazione degli ulteriori istituti di cui l’autorità giudiziaria può ora usufruire nel contrastare quei fenomeni di esercizio dell’attività di impresa secondo modalità in tutto o in parte criminose.

La già citata L. 199/2016 ha innovato profondamente anche sotto tale profilo.

In primo luogo ha, infatti, esteso anche all’art. 603 bis c.p. la confisca obbligatoria, anche per equivalente ex art. 12 sexies D.L. n. 306/92, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto.

Oltre a ciò, con l’art. 3, ha introdotto la misura – alternativa al sequestro dell’azienda – del controllo giudiziario dell’”azienda presso cui è stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”, con relativa nomina di un amministratore con il compito di affiancare l’organo gestorio nell’adempimento di specifiche prescrizioni volte ad evitare che si reiterino “situazioni di grave sfruttamento lavorativo”, senza tuttavia procedere allo spossessamento dell’azienda.

Infine, tale novella legislativa ha inserito il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. nel novero dei reati presupposto di cui all’art. 25 quinquies D. Lgs. n. 231/01 dalla cui commissione può derivare la responsabilità amministrativa dell’ente ove vengano accertati gli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito 231.

Da ultimo, per ciò che rileva maggiormente in questa sede, è intervenuta la riforma del Codice Antimafia del 2017, che ha inserito il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. nel novero dei reati suscettibili di fondare l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 D. Lgs. n. 159/2011.

A differenza del controllo giudiziario, fine specifico di tale misura di prevenzione è quello di rimuovere le situazioni di fatto e di diritto riconnesse all’esercizio di attività economiche che possano agevolare l’operato di persone indiziate di avere commesso il delitto di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro, tramite un – almeno parziale – spossessamento gestorio.

Il panorama degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria per risanare le imprese da forme di imprenditorialità illecite senza pregiudicarne la continuità aziendale, come si vede, è quindi molto ampio e assortito, con opzioni diverse che variano in base ai presupposti e delle specifiche finalità da perseguire nel caso concreto.

Come si avrà modo di osservare più approfonditamente di seguito, è proprio la pluralità dei rimedi messi a disposizione dall’ordinamento e i criteri di scelta degli stessi a costituire, forse, il profilo di maggior interesse delle decisioni prese dal Tribunale milanese nella vicenda Uber.


3.3. I profili di interesse dei decreti: la scelta del Tribunale di Milano di optare per il ricorso all’amministrazione giudiziaria e, attraverso questa, allo strumento del modello organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01

Alla luce di quanto appena esposto, ben si comprende come l’aspetto di maggior interesse dei decreti in commento sia costituito dalla scelta di colpire le nuove forme di sfruttamento del lavoro legate alla c.d. gig economy, come quella posta in essere da Uber Italy S.r.l. e le società intermediarie Flash Road City e FRC S.r.l. tramite il combinato ricorso allo strumento dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia e, attraverso questa, del Modello di Organizzazione e Gestione ex D. Lgs. n. 231/01.

Con il decreto del 27 maggio 2020, infatti, il Tribunale di Milano, riscontrata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all’art. 603 bis c.p. in capo ai managers delle società fleet partner, si sofferma sull’analisi degli elementi sulla base dei quali ritenere che la multinazionale Uber (e più specificatamente la sua articolazione italiana Uber Italy S.r.l.) abbia agevolato la commissione di tale reato presupposto nell’assoluta consapevolezza dello sfruttamento perpetrato nei confronti dei riders da Flash Road City e da FRC S.r.l.

A fronte di ciò, il giudice milanese ritiene di poter ben ricorrere alla misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia in quanto l’amministrazione giudiziaria consentirebbe un intervento sulla gestione imprenditoriale della società proposta non completamente ablatorio, ma commisurato a quanto necessario per il pieno risanamento dell’impresa. Il provvedimento valorizza così la lettera dell’art. 34 secondo cui l’amministratore giudiziario avrebbe la facoltà di esercitare i poteri tipici dell’organo gestorio secondo le modalità stabilite dal Tribunale e non anche l’obbligo di esercitare in toto l’attività d’impresa.

Poste tali premesse, ed analizzata in parte motiva i diversi elementi da valutare al fine di scegliere il tipo di misura più adeguata a giungere al risultato di una “bonifica aziendale”, il Tribunale ritiene proporzionata la misura dell’amministrazione giudiziaria della durata di un anno, lasciando il normale esercizio dell’impresa agli organi gestori, e quindi senza una completa immissione nel possesso dei beni aziendali da parte dell’amministratore stesso.

Questi, per contro, viene incaricato di specifici compiti quali (i) esaminare e riportare al Tribunale le iniziative attuate da Uber Italy S.r.l. a seguito della misura di prevenzione con specifico riguardo alla composizione degli organi amministrativi e dei rapporti contrattuali con i dipendenti e i terzi, (ii) assicurare la propria costante presenza presso la sede societaria e la partecipazione alle attività societarie, (iii) revisionare tutti i contratti in essere con i terzi operanti nel mercato del delivery verificando il loro rispetto delle prescrizioni legali oltre che di autorizzare la stipula di nuovi contratti con i riders, (iv) valutare l’atteggiamento assunto dalla società proposta e se la misura ha dispiegato gli effetti sperati.

Ma, prima di ciò – ed è questo il punto più innovativo, ma al tempo stesso più problematico del provvedimento – l’amministratore giudiziario viene incaricato dal Tribunale di “esaminare l’assetto della società con particolare riferimento ai rapporti intercorrenti con le altre società del gruppo UBER ed in particolare UBER EATS ITALY S.r.l. avente sede legale sempre in Milano, UBER PORTER B.V. con sede legale in Amsterdam accertando quale sia il modello organizzativo e gestionale redatto ex art. 6 II comma D. Lgs. n. 231/2001 (e dunque con particolare cura nella valutazione della idoneità del modello “a prevenire reati della specie di quello verificatosi”)”.

A fronte di ciò, come peraltro evidenziato nella relazione conclusiva del proprio incarico da parte dell’amministratore giudiziario, la società ed i suoi vertici di concerto con quest’ultimo si sono sin da subito attivati per ottemperare alle prescrizioni dettate dal Tribunale.

In particolare, oltre alla cessione del ramo d’azienda del delivery food a favore della Uber Eats S.r.l. e alla scelta di gestire direttamente i rapporti con i corrieri escludendo a monte la possibilità di affidare a terzi la gestione dei riders, la società si è mossa sin da subito nella predisposizione e adozione di un Modello di Organizzazione e Gestione ex D. Lgs. n. 231/01 che mappasse anche i rapporti infragruppo ed in particolare quelli con Uber Eats S.r.l.

L’adozione di tali misure, il loro contenuto, e la rapidità con cui la società ha adempiuto alle prescrizioni imposte, hanno condotto il Tribunale a ritenere che l’applicazione della misura di prevenzione abbia “determinato concreti effetti sul piano di una consistente bonifica aziendale di Uber Italy S.r.l. e della cessionaria Uber Eats Italy S.r.l.” e, conseguentemente, a disporre con decreto 3 marzo 2021 l’immediata revoca della misura anche anteriormente al termine di durata annuale originariamente previsto con il decreto applicativo.

Dalla lettura di tale provvedimento, appare evidente come un ruolo fondamentale per la revoca della misura l’abbia svolto proprio l’adozione del Modello Organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01, i cui contenuti sembrano essere stati vagliati approfonditamente dal collegio giudicante.

In particolare, ne vengono valorizzati specifici aspetti quali (a) la previa valutazione da parte dell’amministratore giudiziario di ogni ambito contrattuale, sia esso inerente i rapporti infragruppo, giuslavoristico o con terze parti, (b) la nomina di un OdV collegiale (composto da un avvocato penalista, un sindaco e dal Responsabile della Conformità) di durata in carica sufficiente anche in ipotesi di revoca della misura, (c) la mappatura di venti attività sensibili e l’adozione di relativi protocolli di prevenzione, (d) uno specifico protocollo per i rapporti con i corrieri con previsione del divieto di utilizzo di fleet partner e di un obbligo di copertura assicurativa in caso di incidente, (e) un protocollo salute, sicurezza sul lavoro e ambiente con specifiche previsioni in merito alla fornitura e all’utilizzo di DPI, in punto di formazione sulla sicurezza stradale, di alfabetizzazione e di monitoraggio dei sinistri.

Tutto ciò, ad avviso del Tribunale, ha deposto a favore della revoca della misura a seguito della quale Uber Italy S.r.l. potrà “presentarsi sul mercato del food delivery, mercato caratterizzato ancora da zone di vasta irregolarità, con un nuovo modello di gestione e organizzativo univocamente orientato a favorire situazioni di trasparenza e legalità nei rapporti negoziali e nella somministrazione dei servizi di food delivery, avendo svolto in tale prospettiva uno sforzo di programmazione ed economico di primaria rilevanza”.


  1. Alcune osservazioni conclusive

I decreti in esame si segnalano per la loro portata innovativa costituita dall’essere tra i primi provvedimenti a colpire quelle imprese, prevalentemente attive nel mercato della c.d. gig economy, che si caratterizzano per l’esercizio di pratiche industriali ed imprenditoriali parzialmente illecite quali, nello specifico, il ricorso a forme meno gravi di sfruttamento dei lavoratori comunemente definite di “caporalato grigio”.

Più in particolare, la vicenda in esame spicca per la scelta – tra i vari rimedi oggi a disposizione dell’autorità giudiziaria – dello strumento della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, intesa come misura finalizzata non allo spossessamento dell’azienda, ma all’affiancamento degli organi gestori finalizzato alla bonifica dell’attività di impresa da pratiche illecite. E ancora di più sono degne di nota le motivazioni poste a fondamento del ritenere tale scelta la più adeguata e proporzionata nel bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, ed in particolare del ripristino della legalità aziendale senza la compromissione dell’attività di impresa, anche nell’ottica di mantenerne inalterati i livelli occupazionali.

Di altrettanto interesse, la scelta di combinare lo strumento dell’amministrazione giudiziaria con quello del c.d. Modello 231 attraverso la previsione, tra le prescrizioni costituenti oggetto della misura di cui all’art. 34 Codice Antimafia, dell’obbligo per la società proposta di dotarsi di un modello organizzativo ex art. 6, co. 3, D. Lgs. n. 231/01 idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi nella specifica area a rischio dei rapporti con i riders.

Nonostante ciò, tale opzione non risulta priva di criticità.

A ben vedere, infatti, l’avere accertato che risultasse “palese come, di fatto, Uber indirizzasse e limitasse le capacità decisionali del fleet partner con ripercussioni sull’autonomia decisionale dei fattorini ed in aperta contraddizione con quanto previsto sia nel contratto siglato tra Uber e FRC S.r.l. […] e con la natura degli accordi di collaborazione occasionale sottoscritti dalla FRC con i vari riders” unitamente all’accertamento della piena consapevolezza da parte di Uber delle condotte di sfruttamento poste in essere ai danni dei ciclofattorini, sembra idoneo ad escludere in capo a Uber la qualifica di soggetto terzo estraneo rispetto al reato di cui all’art. 603 bis c.p.

In altre parole, da tale accertamento deriverebbe un coinvolgimento diretto di Uber nella commissione del reato di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro (in ipotesi d’accusa consumato solo dalle società fleet partner).

Ne conseguirebbe necessariamente che tale società non potrebbe più assumere la qualifica di soggetto agevolatore rispetto a persone sottoposte a procedimento penale per il reato di cui all’art. 603 bis c.p., con la conseguenza che verrebbe a mancare uno dei presupposti indispensabili per l’applicazione della misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia.

Al contrario, tale tipo di coinvolgimento diretto di Uber nella commissione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p., unitamente al dolo del reato ed alla commissione dello stesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, avrebbe dovuto portare ad una incolpazione dell’ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 quinquies D. Lgs. n. 231/01, ed alla eventuale applicazione in via cautelare della diversa misura del commissariamento giudiziale di cui all’art. 15 D. Lgs. n. 231/01.

Al di là di ciò, i provvedimenti in esame restano comunque degni di nota per essere tra i primi provvedimenti ad avere fornito delle coordinate valutative per tutte le volte in cui l’autorità giudiziaria si troverà a dover scegliere quale misura adottare, tra le varie a disposizione, per risanare attività imprenditoriali bonificandole da pratiche illegali, e a stabilire come modularla. Il tutto, avendo espressamente riconosciuto come tale azione debba avvenire secondo un delicato bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e di repressione dell’economia illegale da un lato e quelle di continuità imprenditoriale e di mantenimento dell’occupazione dall’altro.

Francesco Gaspardini

Avvocato del Foro di Bologna


[1] M. Barberio – V. Camurri, L’amministrazione giudiziaria di Uber: un possibile cortocircuito tra il sistema giuslavoristico e le misure di prevenzione, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8

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Obbligo vaccinale degli operatori sanitari e riflessi sulla compliance delle strutture sanitarie

L’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021: alcune osservazioni sui riflessi in materia di compliance delle strutture sanitarie

– pubblicato il 6 maggio 2021 –

 

  1. Premessa: origine dell’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari

Fin dalla sua prima stesura il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 aveva individuato la categoria degli operatori sanitari e socio-sanitari come la prima categoria di lavoratori da sottoporre con priorità a vaccinazione in quanto estremamente esposti al contagio (e all’ulteriore trasmissione) nonché per consentire la “resilienza del servizio sanitario”. Secondo le stime contenuto del Piano si tratta di circa 1,4 Mln di lavoratori.

Ben presto però, all’interno della (variegata) macro-categoria degli operatori sanitari si sono manifestate alcune resistenze circa la volontà di sottoporsi alla vaccinazione. Le pressioni del mondo scientifico (e politico) hanno portato il Governo ad introdurre, con l’art. 4 D.L. 44/2021, l’obbligo vaccinale per tale categoria di lavoratori.

 

  1. I destinatari e i contorni applicativi dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021

I soggetti interessati da quanto previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021 sono:

  • gli esercenti le professioni sanitarie;
  • gli operatori di interesse sanitario in strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali in strutture pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.

Nonostante la norma di legge si esprima in termini perentori, quanto disposto dalla norma, entrata in vigore il 1 aprile 2021, non può essere qualificato propriamente un obbligo vaccinale. In forza della nuova disposizione, infatti, il lavoratore interessato non viene coattivamente obbligato a sottoporsi al trattamento sanitario non voluto -ciò avrebbe presentato profili di dubbia compatibilità con la Costituzione- ma tale astensione è qualificata per legge come incompatibile con l’esercizio delle mansioni sanitarie.

Il Legislatore ha infatti inteso qualificare la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da COVID-19 come un requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle attività lavorative sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali.

Di fronte al rifiuto dell’operatore sanitario di sottoporsi alla vaccinazione, il datore di lavoro ha facoltà di assegnarlo, ove possibile, ad altre mansioni anche inferiori che comunque non implicano rischi di diffusione del contagio”.

Laddove ciò non sia possibile la struttura dovrà procedere alla sospensione del lavoratore fino all’assolvimento dell’obbligo e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Per tale periodo la legge dispone che al lavoratore non è dovuta alcuna retribuzione; egli ha il solo diritto alla conservazione del posto di lavoro.

L’unica eccezione contemplata dalla normativa è che il lavoratore non possa sottoporsi alla vaccinazione per accertate ragioni di salute: in questo caso la stessa può essere differita o omessa e il datore di lavoro potrà assegnare il lavoratore a mansioni anche diverse “in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio”.

 

  1. La valutazione del rischio di contagio in presenza di operatori sanitari non vaccinati da parte del datore di lavoro

Le due situazioni delineate dal Legislatore, il rifiuto ovvero l’impossibilità (assoluta o temporanea) del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione impongono al datore di lavoro una rimodulazione dell’organizzazione del lavoro che, fermi restando i ben noti presidi di sicurezza già da tempo certamente attuati dovrà mettere in atto gli strumenti di prevenzione individuati dalla normativa, in particolare il demansionamento e la sospensione dall’attività lavorativa (art. 4 co. 8 D.L. 44/2021).

Va precisato che tali misure riprendono quanto già previsto dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 81/08, TUSL) in relazione all’esposizione dei lavoratori ad agenti biologici ed, in particolare, all’art. 279 TUSL che, in caso di giudizio di inidoneità alla mansione da parte del medico competente, prescrive al datore di lavoro di allontanare temporaneamente il lavoratore adibendolo a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori.

Ad ogni modo, la valutazione del rischio va rimodulata rispetto alla particolare situazione pandemica in atto: in tale prospettiva, la presenza sul luogo di lavoro di un operatore non vaccinato costituisce una variabile che deve essere adeguatamente tenuta in considerazione nella riorganizzazione del lavoro. Invero, la peculiarità delle mansioni tipicamente svolte dagli operatori sanitari, che presuppongono il contatto frequente e prolungato con soggetti (i pazienti) estranei all’organizzazione lavorativa, fanno sì che l’omessa vaccinazione del lavoratore impatti sul rischio di contagio e diffusione; rischio soltanto in parte mitigato dall’uso dei DPI e dalla vaccinazione degli altri lavoratori. Com’è noto, infatti, la vaccinazione contro COVID-19 è uno strumento idoneo ed efficace per prevenire manifestazioni gravi della malattia ma non garantisce la totale immunizzazione dei soggetti che vi si sono sottoposti. Come ricorda l’ISS, infatti, tutti i lavoratori, inclusi gli operatori sanitari, devono continuare a utilizzare rigorosamente i DPI, i dispositivi medici prescritti, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico e le altre precauzioni indipendentemente dallo stato di vaccinazione.

 

  1. Profili di applicabilità della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 in caso di contagio da COVID-19 dell’operatore sanitario non vaccinato; l’importante funzione del Modello 231 quale strumento coordinatore di compliance

Laddove la struttura sanitaria non abbia preventivamente disposto l’allontanamento del sanitario non vaccinato e questi abbia contratto la malattia, sussistono gli estremi per la responsabilità ex D. Lgs. 231/01 della struttura sanitaria?

(Può risultare ultroneo precisare che il ragionamento può essere condotto solo con riferimento alle strutture private, poiché il D. Lgs. 231/2001 esclude espressamente l’applicabilità della disciplina agli enti pubblici.)

La portata di una simile questione si apprezza ancor più laddove si consideri che il contagio potrebbe diffondersi ad altri lavoratori amplificando così le conseguenze sanzionatorie, risarcitorie e reputazionali per l’ente.

Per rispondere a tale quesito occorre premettere alcune osservazioni.

Ci troviamo di fronte alla possibile configurabilità dei reati presupposto richiamati dall’art. 25septies del D.Lgs. 231/01 e cioè di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

In base alle evidenze scientifiche fin qui note circa il decorso della malattia, è possibile affermare che l’infezione da COVID-19 possa, in taluni casi, condurre a stati morbosi integranti il reato di lesioni gravi o gravissime e, nei casi più gravi, alla morte.

Tale rilievo, tuttavia, non è di per sé sufficiente a far sorgere la responsabilità 231 in capo alla struttura: occorre domandarsi se nel concetto di violazione della normativa cautelare in ambito SSL possa ricomprendersi l’omessa sospensione e/o demansionamento del lavoratore non vaccinato.

Il quesito trova risposta positiva se solo si considera il dettato normativo del già richiamato art. 279 del TUSL, senza, poi considerare gli ampi spazi entro i quali può muoversi un’imputazione per colpa generica, garantiti dalla portata applicativa piuttosto estesa dell’art. 2087 c.c.

Peraltro, a nulla rileva il fatto che il contagio possa essere derivato dalla scelta, libera e consapevole, del sanitario che ha deciso di non sottoporsi alla vaccinazione in quanto le norme dettate in tema di prevenzione sono dirette a tutelare il lavoratore, non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione ma anche quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso.

Maggiori perplessità sorgono, invece, avendo riguardo alla configurabilità del requisito dell’interesse e vantaggio in capo alla struttura in caso di contagio di un dipendente.

Con riferimento ai reati colposi come quelli di cui sopra, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’interesse e il vantaggio ricorrono allorquando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, e ciò anche indipendentemente dal suo effettivo conseguimento.

L’omessa sospensione del lavoratore non vaccinato, tuttavia, sembra incoerente rispetto al perseguimento dell’interesse o vantaggio inteso come risparmio di spesa in quanto in caso di sospensione non è dovuto alcun trattamento economico.

Ad un esame più approfondito, tuttavia, emerge che il risparmio di spesa non è necessariamente l’unica finalità perseguibile dall’ente.

La struttura sanitaria, invero, potrebbe decidere di non sospendere e/o demansionare il lavoratore non vaccinato in ragione del fatto che ciò comporterebbe una diminuzione dei servizi offerti agli utenti della struttura. Consentire al lavoratore non vaccinato di continuare a svolgere le proprie mansioni, sebbene comporti un esborso economico dovuto allo stipendio da corrispondere allo stesso, consente la massimizzazione della produttività della struttura.

In altre parole, quindi, laddove l’omessa sospensione e/o demansionamento risponda a logiche di massimizzazione della produzione, potrebbe riconoscersi un beneficio dell’ente nella violazione delle norme di salute e sicurezza sul lavoro e di qui la responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs. 231/01.

Ad ogni modo, Il tema dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021 mette in luce l’importanza che assume l’adozione di adeguati assetti organizzativi a fini di compliance anche nel contesto delle strutture sanitarie, soprattutto se si considera la progressiva “aziendalizzazione” che le ha caratterizzate nel corso degli ultimi anni.

In tal caso, le misure organizzative svolgono la funzione principale di assicurare il rispetto degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera fissati nel Decreto del Ministro della Salute 2 aprile 2015, n. 70.

In tale contesto, il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ex D. Lgs. 231/2001, per la sua funzionalità eterogenea si profila quale “contenitore” più idoneo delle misure organizzative volte ad assicurare la compliance agli standard di legge: se ben costruito, infatti, esso risulta idoneo non solo a minimizzare il rischio di commissione di reati, bensì anche di episodi di mala gestio ed assicurare, così, gli standard qualitativi richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.

Dunque, a prescindere dalla possibile contestazione della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, la gestione del rischio di contagio da COVID – 19 diviene questione di estrema rilevanza per assicurare tali standard.

 

  1. Gli aspetti rilevanti in materia di privacy afferenti alla verifica di adempimento dell’obbligo vaccinale

Le misure di demansionamento o sospensione del lavoratore vengono adottate a seguito dell’accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale, ad esito di uno specifico iter previsto dallo stesso art. 4 del D.L. 44/2021 che involve diverse tipologie di trattamento di dati personali da sottoporre ad attento monitoraggio.

In via di estrema sintesi, l’iter prevede che entro cinque giorni dall’entrata in vigore del Decreto ciascun Ordine professionale di appartenenza degli esercenti le professioni sanitarie dovesse trasmettere l’elenco dei propri iscritti alla regione o provincia autonoma presso la quale ha sede; e che entro lo stesso termine, i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario dovessero trasmettere agli stessi enti l’elenco dei propri dipendenti.

Successivamente, le regioni e le province autonome avrebbero dovuto verificare lo stato vaccinale dei soggetti contenuti negli elenchi, per poi segnalare all’Azienda Sanitaria Locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultavano vaccinati; l’Azienda Sanitaria Locale avrebbe poi richiesto ai soggetti in questione di presentare entro cinque giorni la documentazione comprovante la vaccinazione, l’omissione o il differimento in relazione a specifiche condizioni cliniche; in caso di mancata presentazione della documentazione, l’Azienda Sanitaria dovrebbe quindi accertare il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale con immediata comunicazione all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine Professionale di appartenenza.

Dall’iter delineato all’art. 4 emergono alcune questioni di rilievo in ordine al corretto trattamento dei dati.

Prima dell’entrata in vigore del D.l. 44/2021, risultava pacifico che il datore di lavoro (di qualsiasi categoria di lavoratori) non potesse conoscere lo “stato vaccinale” dei dipendenti, prerogativa riconosciuta al solo medico competente (ad esempio, anche riguardo alle misure di sicurezza da adottare in caso di esposizione al rischio di agenti biologici di cui all’art. 279 TUSL, l’eventuale allontanamento o cambiamento di mansioni era da ricondurre ad un certificato di inidoneità del medico competente); tale posizione era stata assunta anche dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.

L’art. 4 D.L. 44/2021 sembra, però, disporre diversamente, prevedendo la comunicazione di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale da parte delle Aziende Sanitarie direttamente al datore di lavoro (e non al medico competente).

Sebbene, in tal caso, il datore di lavoro opererebbe sulla base giuridica dell’adempimento di un obbligo di legge (art. 9, c. 2, lett. b) GDPR 2016/679), ciò potrebbe presentare profili di compatibilità con la disciplina generale in materia di protezione dei dati personali,

A seguito dell’entrata in vigore del D.L. 44/2021, l’Autorità Garante ha già manifestato alcune perplessità – in particolare, con riferimento alla necessità di definire con maggiore esattezza i soggetti interessati dall’obbligo vaccinale, le tipologie di dati da trattare con specifiche garanzie per quelli dei soggetti esentati dall’obbligo, dai quali possono desumersi patologie e le modalità di realizzazione del flusso informativo ed alla mancata previa consultazione dell’Autorità prima dell’adozione -, auspicando che in sede di conversione il decreto legge assuma contorni di piena conformità.

Giova precisare che la normativa di cui al GDPR è costruita in maniera piuttosto elastica: pur riconoscendo la crescita esponenziale dei trattamenti di dati personali e la conseguente necessità di approntare misure comuni a salvaguardia della liceità dei trattamenti, in diversi passaggi del Regolamento si precisa che il diritto alla protezione dei dati debba essere sempre bilanciato con la tutela di altri diritti fondamentali, come (in questo caso) il diritto alla salute e le esigenze di tutela della salute pubblica.

Si prenda ad esempio quanto definito dal considerando (52) del GDPR: La deroga al divieto di trattare categorie particolari di dati personali dovrebbe essere consentita anche quando è prevista dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, fatte salve adeguate garanzie, per proteggere i dati personali e altri diritti fondamentali, laddove ciò avvenga nell’interesse pubblico, in particolare il trattamento dei dati personali nel settore del diritto del lavoro e della protezione sociale, comprese le pensioni, e per finalità di sicurezza sanitaria, controllo e allerta, la prevenzione o il controllo di malattie trasmissibili e altre minacce gravi alla salute; o dal considerando (54): Il trattamento di categorie particolari di dati personali può essere necessario per motivi di interesse pubblico nei settori della sanità pubblica senza il consenso dell’interessato.

Pertanto, in considerazione della emergenza pandemica in atto, è verosimile ipotizzare che le compressioni saranno giudicate, in ultima analisi, come rientranti in confini di liceità: ciò non esime, tuttavia, le strutture sanitarie dal dovere di assicurare un elevato grado di monitoraggio sulle misure tecniche e organizzative adottate affinchè venga assicurata piena correttezza nei processi di trattamento dei dati.

 

  1. Conclusioni

L’estrema diffusività del virus e le accennate peculiarità degli ambienti di lavoro ove operano i sanitari impongono estrema attenzione nella valutazione del rischio e nell’implementazione di adeguate misure organizzative.

Se, come sembrano indicare le autorità sanitarie, serviranno ulteriori richiami della vaccinazione anti COVID-19 è certo che le problematiche summenzionate si estenderanno ben oltre la data del 31 dicembre prevista dal Decreto legge.

Ne consegue l’esigenza, da parte delle strutture sanitarie, di approntare fin da subito dei protocolli operativi da attuare tempestivamente in presenza di lavoratori che non aderiscano alle previste vaccinazioni volte non solo al contenimento del contagio, ma anche ad assicurare la compliance agli standard richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.

 

 

Arianna Bassi e Alberto Bernardi

Avvocati del Foro di Bologna

 

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Il sistema delle deleghe e procure nel contesto del modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del D.Lgs. 231/2001

Il sistema delle deleghe e procure nel contesto del modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del d.lgs. n. 231/2001

 – pubblicato il 2 aprile 2021-

 

 

  1. I diversi istituti di deleghe e procure

Un’efficace organizzazione aziendale, anche in termini di prevenzione dei reati, non può prescindere da un’adeguata ripartizione delle funzioni e dei poteri tra i diversi soggetti che operano nel contesto societario.

La costruzione di un equilibrato e coerente sistema di deleghe e procure oltre a rafforzare l’efficienza della struttura organizzativa costituisce un valido presidio alla commissione dei reati da parte degli esponenti aziendali i quali devono disporre di circoscritti poteri di azione, limitati da precise soglie di valore, eventualmente in combinazione con firme congiunte ad altri vertici aziendali.

Nell’ambito societario il sistema di deleghe e procure può essere strutturato sulla base di tre differenti istituti:

  • La delega di funzioni ex art. 16 d.lgs. n. 81/2008.

La delega di funzioni è conferita, con atto scritto recante data certa, da parte dell’organo amministrativo (ovvero da parte del soggetto che riveste la qualifica di datore di lavoro in senso prevenzionistico) a favore di soggetti interni o esterni all’ente che si distinguono per professionalità ed esperienza rispetto alla specifica natura delle funzioni delegate in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

La delega di funzioni attribuisce al delegato poteri di organizzazione, gestione e controllo nonché un’autonomia di spesa in materia di salute dei lavoratori e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Si pensi al caso del direttore di stabilimento al quale vengono delegate le funzioni di datore di lavoro in ambito prevenzionistico.

  • La delega gestoria ex art. 2381 c.c.

La delega gestoria è conferita con delibera da parte del consiglio di amministrazione a favore di uno o più dei suoi consiglieri interni.

La delega attribuisce al consigliere/amministratore delegato poteri decisionali, esecutivi e di rappresentanza, propri dell’organo amministrativo.

Si pensi al caso dell’amministratore delegato al quale sono conferiti i poteri di offrire e cedere a terzi i beni prodotti dalla società e di stipulare i conseguenti contratti di vendita, oppure al caso del consigliere delegato al quale sono conferiti poteri in tema di rapporti di lavoro, tra i quali quelli di assumere, sospendere o licenziare dipendenti e dirigenti, stabilendo e modificando le rispettive incombenze e retribuzioni.

 

  • La procura speciale ex art. 2209 c.c.

La procura speciale è conferita con atto notarile da parte dell’organo amministrativo a soggetti interni all’ente che generalmente ricoprono ruoli dirigenziali.

La procura speciale attribuisce il potere di compiere, in rappresentanza dell’ente, atti pertinenti all’esercizio dell’impresa.

Si pensi al caso del direttore di un processo produttivo al quale vengono attribuiti i poteri di stipulare, modificare o risolvere contratti di acquisto o di vendita dei beni e dei servizi oggetto del processo assegnato, oppure al caso del responsabile dell’area amministrazione, finanza e controllo al quale viene attribuito il potere di compiere operazioni bancarie e postali entro determinati limiti di spesa e con la previsione di firme congiunte per operazioni di particolare rilevanza economica.

 

  1. La segregazione dei ruoli e dei poteri

Il tema delle deleghe e delle procure assume un ruolo rilevante anche nell’ambito del Modello di organizzazione, gestione e controllo di cui al D.Lgs. n. 231/2001. Infatti, uno dei principi cardine su cui si fonda il Modello ex D.Lgs. n. 231/2001 è la c.d. segregazione dei ruoli e dei poteri.  Nel Modello devono quindi essere ben definiti i ruoli, i poteri e le responsabilità dei singoli esponenti aziendali nell’ottica di garantire una separazione dei compiti e attuare all’interno delle singole attività sensibili aziendali quella necessaria segregazione tra coloro che:

  • pianificano l’operazione,
  • decidono di eseguire l’operazione,
  • attuano l’operazione,
  • controllano la correttezza e conformità dell’intera operazione.

A tal proposito è proprio l’art. 6, comma 2, lett. b) del D. L.gs. n. 231/2001 a prevedere che in relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i Modelli di organizzazione e gestione devono “prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire”.

In altri termini, la società deve prevedere specifiche regole di comportamento (c.d. protocolli) che devono essere rispettate nell’ambito dei processi decisionali.

Tali regole di comportamento dovranno poi essere declinate in apposite procedure scritte che:

  • individuano i soggetti coinvolti nel processo prevedendo passaggi gerarchici tra le diverse fasi in cui si articola il processo;
  • descrivono le modalità di svolgimento delle singole operazioni che compongono l’intero processo e individuano i comportamenti da adottare nonché gli strumenti da utilizzare per porli in essere.

Ne consegue che l’attuazione di uno strutturato sistema di segregazione dei ruoli e dei poteri combinato a regole di comportamento permette di:

  • evitare che un singolo soggetto possa gestire in autonomia un intero processo;
  • tenere traccia degli atti compiuti e delle operazioni effettuate, in modo da poter risalire, anche a distanza di tempo, ai soggetti coinvolti nei singoli processi;
  • prevenire o comunque attenuare la commissione dei reati.
  1. Il principio di segregazione applicato alle procedure operative aziendali

Sulla base delle considerazioni sopra svolte si potrebbe prendere in esame un processo aziendale a rischio reato ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 e ipotizzare la relativa procedura operativa.

Si prenda ad esempio il caso del processo relativo alla richiesta di finanziamenti e contributi erogati da Enti Pubblici, nel cui ambito possono annidarsi comportamenti illeciti che potrebbero configurare le ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione (tra i quali, tra i tanti, l’indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter c.p.).

Nella relativa procedura operativa potranno essere indicati una serie di protocolli – principi di comportamento per la prevenzione dei reati, tra i quali si possono menzionare a titolo esemplificativo e generico che:

  • la documentazione presentata per l’ottenimento del finanziamento deve essere completa e veritiera;
  • le persone che hanno contatti con l’Ente Pubblico devono tenere comportamenti corretti e volti al leale svolgimento della procedura di ottenimento del finanziamento.

Oltre alle regole di comportamento a cui dovranno attenersi le persone interessate dal processo aziendale di riferimento, la procedura dovrà dare evidenza della segregazione delle funzioni e della ripartizione dei poteri, pertanto la parte descrittiva della procedura potrebbe in ipotesi essere così strutturata:

  • Il compito di individuare i bandi per la concessione di finanziamenti, contributi o altre erogazioni da parte di Enti Pubblici è demandato all’ufficio affari legali o ad un ufficio tecnico interno che procede ad una preliminare verifica sui requisiti di ammissibilità al finanziamento pubblico e comunica il proprio studio di fattibilità al Responsabile Amministrativo (al quale è delegata la gestione delle attività inerenti alla presentazione delle domande di accesso a finanziamenti pubblici);
  • il Responsabile Amministrativo verifica quanto comunicato da parte dell’ufficio affari legali o ufficio tecnico e riferisce al Consiglio di Amministrazione l’opportunità di accedere al finanziamento pubblico;
  • Il Consiglio di Amministrazione con propria delibera decide in merito alla presentazione di richiesta di accesso al finanziamento pubblico e nomina un Responsabile del Progetto (che non deve coincidere con il Responsabile Amministrativo).
  • il Responsabile del Progetto predispone tutta la documentazione da presentare all’Ente Pubblico al fine della richiesta di accesso al finanziamento, coadiuvato dall’ufficio affari legali o ufficio tecnico;
  • Il Responsabile Amministrativo verifica la correttezza della documentazione predisposta dal Responsabile del Progetto e sottopone la richiesta di accesso al finanziamento alla firma del legale rappresentante della società (che potrebbe essere il Presidente del Consiglio di Amministrazione oppure l’amministratore/consigliere delegato con poteri di rappresentanza nei confronti degli Enti Pubblici con poteri di firma per conto della società);
  • il Responsabile Amministrativo congiuntamente con il Responsabile del Progetto, che ha previamente verificato la corrispondenza tra la documentazione consegnata al primo e quella firmata dal legale rappresentante, provvedono alla trasmissione della domanda all’Ente Pubblico;
  • il Responsabile Amministrativo verifica l’esito del bando e riferisce al Consiglio di amministrazione.

L’insieme dei passaggi sopra tracciati, che indubbiamente può essere diversamente impostato o integrato con altri sistemi di controllo, consente un esercizio effettivo delle deleghe e garantisce quella separazione tra ruoli e poteri implicitamente richiesta dalla normativa di cui al D. Lgs. n. 231/2001 per la prevenzione dei reati-presupposto.

Ne consegue che l’adozione di un Modello di organizzazione, gestione e controllo che rispetti i requisiti previsti dall’art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001 e dia efficace attuazione ai principi sopra esposti consentirà alla società di godere di plurimi benefici, tra i quali:

  • l’implementazione di un’organizzazione strutturata con una precisa delimitazione di ruoli, compiti e poteri;
  • la prevenzione dalla commissione di reati per effetto dei sistemi di controllo interno;
  • l’esonero della società da responsabilità penale nel caso in cui si verificasse un illecito tra quelli previsti nel D.Lgs. n. 231/2001. In questo specifico caso la società avrebbe modo di dimostrare che i sistemi di controllo predisposti e adottati a prevenzione dei reati sono stati fraudolentemente elusi dal soggetto che ha commesso il reato.

Riprendendo l’esempio della procedura per la richiesta di accesso a finanziamenti pubblici, si potrebbe in astratto configurare il caso in cui il Responsabile Amministrativo, al fine di ottenere indebitamente il finanziamento pubblico nell’interesse della società, alteri i dati compilati dal Responsabile del Progetto, utilizzi artifizi per non renderli riconoscibili da parte del legale rappresentante che sottoscrive la domanda e infine provveda in via autonoma alla trasmissione della richiesta all’Ente Pubblico.

In questo caso la società avrebbe la possibilità di provare – a fronte dell’evidenza di una procedura operativa scritta e diffusa a tutto il personale e di uno effettivo sistema di deleghe – l’elusione fraudolenta del Modello efficacemente adottato e attuato e così beneficiare dell’esonero dalla responsabilità ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, mentre il Responsabile Amministrativo risponderà personalmente del reato commesso.

 

  1. Conclusioni

In conclusione, attraverso lo strumento delle deleghe e delle procure si attua un importante decentramento dei processi decisionali che tende a ribaltare la classica organizzazione verticistica, favorendo una più ampia responsabilizzazione da parte dei soggetti che operano nel contesto societario e realizzando quella segregazione di ruoli e di poteri cui tendere nell’ambito del modello organizzativo ex D.Lgs. 231/2001.

La segregazione dei ruoli e dei poteri diviene pertanto uno strumento indispensabile per prevenire la consumazione dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001 e conseguire l’inapplicabilità del regime sanzionatorio ivi previsto a carico della società.

Laura Dal Prato

Avvocato del Foro di Ravenna

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L’aggiornamento del Modello Organizzativo alla luce dell’introduzione dei reati di contrabbando nel D.Lgs. 231/01

L’introduzione dei reati di contrabbando nel novero dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex D. Lgs. 231/2001: un intervento di riforma da non sottovalutare

 

  1. Quadro normativo di riferimento

Oltre ai “tanto attesi” reati tributari, il Decreto Legislativo 14 luglio 2020, n. 75 – di attuazione della direttiva UE relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione Europea mediante il diritto penale (c.d. “direttiva PIF”) – ha introdotto ulteriori fattispecie nel novero dei reati presupposto della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 (di seguito, per brevità, anche “Decreto 231”) altrettanto meritevoli di attenzione, come i reati di contrabbando di cui all’art. 25sexiesdecies.

Il tema è tutt’altro che marginale per la dimensione internazionale che hanno assunto gli scambi commerciali  negli ultimi decenni e per il costante incremento del fenomeno di outsourcing (parziale o totale) dei processi produttivi: pertanto, le imprese con operatività orientata a paesi extra-UE dovranno prestare particolare attenzione alla materia e porre in essere le misure di adeguamento necessarie, provvedendo ad aggiornare il Modello 231 (o ad adottarlo qualora non abbiano già provveduto) e a introdurre presidi specifici volti a evitare la commissione di illeciti di contrabbando nel compimento delle operazioni doganali.

L’adeguamento si presenta a prima vista non agevole, soprattutto per il quadro normativo articolato: oltre (evidentemente) al D. Lgs. 231/2001, le azioni da porre in essere, finalizzate ad assicurare la conformità, dovranno essere orientate (principalmente) ai seguenti parametri normativi:

  • D.p.r. 43/1973 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale; di seguito, per brevità, anche “TULD”)
  • reg. UE n. 952/2013 (che istituisce il Codice Doganale dell’Unione Europea; di seguito, per brevità, anche “CDUE”);
  • D. Lgs. 374/90 (Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo nell’ambito di immissione in libera pratica delle merci e di esportazione delle merci comunitarie)

Il tema si caratterizza per una stretta connessione tra diritto interno e diritto sovranazionale; infatti, sebbene la legiferazione in materia penale costituisca (attualmente) una prerogativa dei singoli stati membri dell’Unione Europea, a seguito dell’abbattimento dei dazi doganali negli scambi infra-UE e dell’istituzione della tariffa doganale comune, il gettito derivante dai dazi doganali è divenuto risorsa dell’UE, e, in quanto tale, necessita di una azione coordinata tra gli stati membri per essere tutelato.

La direttiva PIF si prefigge, per l’appunto, l’obiettivo di rendere quanto più omogenea possibile  la risposta sanzionatoria al fenomeno del contrabbando  – conformemente a quanto previsto dall’art. 83 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), che consente a Parlamento Europeo e Consiglio di adottare direttive che stabiliscono norme minime relative alla definizione dei reati per materie che devono essere trattate su basi comuni per la loro rilevanza transnazionale – ; l’armonizzazione in materia è principalmente perseguita dal CDUE,  che si applica uniformemente a tutti i Paesi ed ai quali è demandato il rispetto della normativa  mediante l’applicazione di sanzioni che siano effettive, proporzionate, dissuasive (art. 42 CDUE).

 

  1. Illeciti in materia di contrabbando: individuazione dell’area di rilevanza penale

Nell’ordinamento italiano, il contrasto al fenomeno del contrabbando mediante lo strumento penale è esercitato attraverso i reati previsti nel TULD; detti reati sono richiamati “in blocco” dall’art. 25sexiesdecies del Decreto 231: ne discende che il risk assessment propedeutico all’aggiornamento (qualora necessario) dei Modelli 231 delle società dovrà essere orientato a tutti i reati ivi previsti.

Procedendo con ordine, appare utile, anzitutto, dare conto del trattamento sanzionatorio che può essere inflitto all’impresa in caso di commissione di un reato in materia di contrabbando nello svolgimento dell’attività (e di accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001).

L’art. 25sexiesdecies suddivide il trattamento sanzionatorio in due “fasce” di gravità e prevede:

  • l’inflizione di una sanzione pecuniaria fino a 200 quote qualora l’ammontare dei diritti di confine non corrisposti sia pari o inferiore a 100.000,00 euro;
  • l’inflizione di una sanzione pecuniaria fino a 400 quote qualora l’ammontare dei diritti di confine non corrisposti sia superiore a 100.000,00 euro.

Inoltre, a prescindere dall’ammontare dei diritti di confine “evasi”, è prevista l’applicazione delle sanzioni interdittive del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e del divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Per evitare di incorrere nelle suddette sanzioni, nel caso in cui l’impresa intrattenga rapporti commerciali con paesi extra-UE, risulterà, dunque, opportuno aggiornare il Modello Organizzativo 231 con presidi specifici volti a minimizzare il rischio di commissione degli illeciti in materia di contrabbando.

L’importanza dell’aggiornamento del Modello Organizzativo è evidente se solo si considera il peculiare sistema di responsabilità delle persone giuridiche delineato dal Decreto 231: ad esempio, sotto il profilo dei meccanismi estintivi di responsabilità, si consideri che, nel caso in cui venga commesso un illecito, sebbene l’art. 334 del TULD preveda la possibilità – per i delitti di contrabbando puniti con la sola pena della multa – di estinguere il reato mediante il pagamento del tributo dovuto e di una somma non inferiore al doppio e non superiore al decuplo del tributo stesso, l’estinzione non opererebbe con riguardo alla responsabilità della persona giuridica in forza dell’art. 8, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 231/01, che dispone che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

Allo scopo di fornire alcuni sommari criteri orientativi nella gestione del rischio di commissione dei reati in materia di contrabbando risulta utile, anzitutto, circoscrivere l’area di penale rilevanza rispetto agli illeciti amministrativi (che non costituiscono presupposto per la responsabilità ex D. Lgs. 231/01).

A questo proposito, occorre indugiare brevemente sugli effetti prodotti a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo 8/2016: detto decreto aveva operato una depenalizzazione “generale” di tutti i reati dell’ordinamento puniti con la sola sanzione pecuniaria della multa e dell’ammenda, tra i quali rientravano molti dei reati previsti dal TULD.

Senonché, ad estendere nuovamente l’area di penale rilevanza è intervenuto l’art. 4 del D. Lgs. 75/2020, che modifica l’art. 1, comma 4 del D. Lgs. 8/2016 e introduce i reati di cui al Testo Unico in materia doganale tra quelli ai quali non deve essere applicata la depenalizzazione, a condizione che l’ammontare dei diritti di confine non corrisposti sia superiore a 10.000,00 euro: con la conseguenza che, al di sotto di tale soglia, la condotta configurerà un illecito amministrativo non idoneo a costituire presupposto per muovere una contestazione anche alla persona giuridica.

Di fatto, dunque, risulta innalzata la soglia già prevista dall’art. 295bis TULD pari a Lire 7.745.000 (all’incirca 4.000,00 euro) al di sotto della quale il mancato pagamento del diritto di confine veniva punito con sanzione amministrativa pecuniaria.

In concreto possono quindi considerarsi quali reati presupposto tutti i reati previsti dal TULD (qualora l’ammontare dei diritti di confine non corrisposti superi i diecimila euro) e, segnatamente:

a. il reato di contrabbando nel movimento delle merci attraverso i confini di terra e gli spazi doganali (art. 282);

b. il reato di contrabbando nel movimento delle merci nei laghi di confine (art. 283);

c. il reato di contrabbando nel movimento marittimo delle merci (art. 284);

d. il reato di contrabbando nel movimento delle merci per via aerea (art. 285);

e. il reato di contrabbando nelle zone extra-doganali (art. 286);

f. il reato di contrabbando per indebito uso di merci importate con agevolazioni doganali (art. 287);

g. il reato di contrabbando nei depositi doganali (art. 288);

h. il reato di contrabbando nel cabotaggio e nella circolazione (art. 289);

i. il reato di contrabbando nell’esportazione di merci ammesse a restituzione di diritti (art. 290);

j. il reato di contrabbando nell’importazione od esportazione temporanea (art. 291);

k. il reato di contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291bis)

l. il reato di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291quater)

(Con riferimento alla associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, si precisa che tale fattispecie era già ricompresa nel novero dei reati presupposto 231 a condizione che essa assumesse carattere “transnazionale” secondo la definizione fornita dall’art. 3, l. 146/2006; a seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. 75/2020, per effetto del semplice richiamo dell’art 25sexiesdecies, il reato può considerarsi presupposto per la contestazione anche in assenza della connotazione di “transnazionalità”)

m. tutte le altre ipotesi che residuano al di fuori di quelle sopra elencate, secondo quanto previsto dal disposto dell’art. 292 (“altri casi di contrabbando”)

Avendo riguardo ai reati sopra elencati è possibile individuare un nucleo materiale comune, consistente in una condotta posta in essere in violazione di un’obbligazione doganale, definita dall’art. 5 CDUE come l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo del dazio all’importazione o all’esportazione applicabile a una determinata merce in virtù della normativa doganale in vigore.

Tradizionalmente, le condotte di contrabbando vengono suddivise in due tipologie che si distinguono a seconda della modalità di commissione: il contrabbando extraispettivo, che si verifica qualora si tenti di sottrarre la merce all’imposizione doganale mediante elusione “materiale” dei controlli dell’autorità doganale (occultamento della merce; passaggio della linea di confine in punti diversi da quelli prescritti); il contrabbando intraispettivo, che si verifica qualora la merce venga sottoposta alle procedure di controllo ma dichiarando dati falsi o errati  relativi alla merce (ad esempio quantità, qualità, origine, destinazione, ecc.) al fine di non corrispondere o corrispondere in somma inferiore i dazi doganali.

Nel prosieguo del commento ci si focalizzerà principalmente sugli elementi di rischio-reato afferenti alle operazioni di introduzioni di merci estere nel territorio doganale UE dal punto di vista del soggetto importatore quale soggetto obbligato a corrispondere i dazi doganali, in quanto situazione più ricorrente e più conforme agli elementi tipici delle fattispecie richiamate dall’art. 25sexiesdecies del Decreto 231.

 

  1. Principali situazioni a “rischio-reato” nel processo di accertamento doganale

Nel contesto delle operazioni connesse all’importazione di merci estere, di particolare importanza è il processo attinente alla trasmissione all’autorità doganale della dichiarazione doganale, sulla cui base la medesima autorità liquida gli oneri doganali dovuti tramite l’emissione della bolletta doganale di importazione.

Più in particolare, la dichiarazione doganale è la manifestazione di volontà diretta a vincolare le merci ad uno specifico regime doganale, mediante l’indicazione degli elementi determinanti in tal senso (ed indicati dall’art. 4 del d. Lgs. 374/90, tra i quali figurano “la descrizione delle merci con l’indicazione della posizione di tariffa, della qualità, della quantità’, del valore e di ogni altro elemento occorrente per la liquidazione dei diritti”)

Risulta, quindi, piuttosto intuitivo comprendere come una corretta gestione del processo di formazione, compilazione e trasmissione del documento in questione sia essenziale in un’ottica di minimizzazione del rischio di commissione dei reati in materia di contrabbando.

L’importanza della dichiarazione doganale si evince anche dalla circostanza che è in base all’incrocio dei dati in essa contenuti da parte dei sistemi informatizzati di valutazione del rischio in uso alle autorità doganali che vengono determinati i successivi (eventuali) controlli da compiersi sull’operazione doganale (controllo documentale; controllo sulle merci; ecc.)

Nel contesto di adozione dei presidi volti alla minimizzazione del rischio va precisato che tutti i reati previsti dal TULD sono puniti a titolo di dolo: pertanto, la compilazione errata della dichiarazione dovuta ad un atteggiamento negligente o colposo, sebbene integrativa di un illecito, non potrà costituire il presupposto per muovere una contestazione anche all’ente ex D. Lgs. 231/2001.

Tra le varie informazioni contenute nella dichiarazione doganale, di particolare importanza è il codice doganale, una sequenza numerica che consente il riconoscimento internazionale della categoria merceologica del prodotto e la determinazione della tariffa da applicare: ai fini di contenimento del rischio, appare utile ricorrere allo strumento della Informazione Tariffaria Vincolante, che consiste nell’attribuzione da parte della stessa autorità doganale (su richiesta dell’operatore economico interessato) della corretta classificazione del prodotto, che vale come “certificazione di correttezza” del codice attribuito e gode di efficacia giuridica su tutto il territorio dell’Unione.

Il soggetto che presenta la dichiarazione (c.d. dichiarante) può non coincidere (come spesso accade) con il proprietario della merce; lo stesso incombente può essere adempiuto da un soggetto munito di poteri di rappresentanza, che nella maggioranza dei casi è lo spedizioniere doganale: in tale contesto, rileva particolarmente il controllo sulla corretta compilazione del documento, ancor più se si considera che, dal punto di vista soggettivo, i reati in materia di contrabbando, in quanto per la maggior parte reati comuni, possono essere commessi da chiunque; inoltre, l’indicazione di elementi errati nella dichiarazione da parte di un rappresentante non osterebbe neppure alla contestazione alla società della responsabilità  ex D. Lgs. 231/2001, in quanto gli effetti della condotta sarebbero direttamente riconducibili all’ente e (soprattutto) suscettibili di procurare un vantaggio.

Si è già detto come a seguito della presentazione della dichiarazione doganale all’autorità, quest’ultima emette la bolletta doganale, nella quale vengono determinati gli oneri doganali dovuti: la giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. VI, ord. n. 16676/2019) qualifica la bolletta doganale come atto pubblico avente fede privilegiata, con la conseguenza che, in caso di inserimento volontario di dati errati, colui che compila la dichiarazione risponderà, oltre che dei reati in materia di contrabbando, del reato di cui all’art. 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) per avere indotto (art. 48 c.p.) il pubblico ufficiale a formare un atto pubblico ideologicamente falso; il concorso di entrambi i reati, peraltro, integra la circostanza aggravante di cui all’art. 295 TULD, con conseguente applicazione della pena della reclusione da tre a cinque anni.

Il controllo da parte dell’impresa deve essere esercitato anche nella fase successiva all’emissione della bolletta doganale: ad esempio, nel caso in cui ci si avveda di errori nella compilazione della dichiarazione, risulterà utile esperire la procedura di revisione dell’accertamento doganale, che consente all’operatore di rendersi parte attiva nella correzione dell’errore della dichiarazione (il che escluderebbe il dolo tipico dei reati in materia di contrabbando).

Ancora, dovrà essere prestata particolare attenzione alla corretta tenuta della documentazione inerente alle operazioni doganali (bolletta doganale e documenti accessori quali fattura commerciale, packing list, ecc.), in quanto l’art. 51 CDUE prescrive l’obbligo di conservazione sino a tre anni dall’operazione per consentire alle autorità doganali di effettuare accertamenti. (Ai fini dei controlli doganali la persona interessata conserva i documenti e le informazioni di cui all’articolo 15, paragrafo 1, per almeno tre anni, su qualsiasi supporto accessibile alle autorità doganali e per esse accettabile.)

 

  1. Rapporti con lo spedizioniere doganale e aspetti rilevanti sotto il profilo di compliance 231

Nel contesto del commercio internazionale, un ruolo di indubbia rilevanza è esercitato dallo spedizioniere doganale, quale soggetto che nella maggioranza dei casi, compie materialmente le operazioni doganali connesse all’importazione della merce.

Il contratto di spedizione, regolato dagli artt. 1737 ss. del codice civile, si caratterizza poiché oltre ad assicurare al mandante l’adempimento delle obbligazioni inerenti al trasporto, obbliga il mandatario all’adempimento di ulteriori obbligazioni accessorie, tra le quali rientra anche l’espletamento delle formalità doganali.

Pertanto, nel contesto di adozione di presidi atti ad evitare la commissione di reati di contrabbando, anche l’eventuale rapporto con lo spedizioniere doganale dovrà essere attentamente monitorato.

Si è già detto come, dal punto di vista formale, nulla osta alla attribuibilità soggettiva del reato allo spedizioniere; la scissione della responsabilità di quest’ultimo rispetto al soggetto importatore rimane confinata a un’ipotesi piuttosto astratta, poiché nella maggioranza dei casi vi è un flusso di informazioni connesso all’espletamento delle formalità doganali tra impresa e spedizioniere (il soggetto importatore comunica le informazioni necessarie da inserire nella dichiarazione doganale; lo spedizioniere trasmette una pre-bolla all’importatore nella quale anticipa i dati che verranno inseriti nella dichiarazione doganale), con la conseguenza che l’impresa difficilmente potrà invocare una estraneità rispetto alla commissione dell’illecito.

Anche ragionando sull’ipotesi di comunicazione di dati falsi o errati da attribuirsi al solo spedizioniere, risulta difficile ipotizzare che l’impresa possa essere esonerata da una contestazione di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001: in primo luogo, poiché è indubbio il vantaggio che ne deriverebbe all’impresa; in secondo luogo, poiché, ragionando in termini di criteri soggettivi di attribuzione della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, sarebbe agevole individuare una colpa da organizzazione per non aver apportato gli opportuni presidi volti al contenimento dell’illecito.

Le opportunità di gestire il rapporto con lo spedizioniere al fine di non incorrere nella commissione di illeciti risultano diversificate. A titolo di esempio si consideri:

  • nella fase di selezione dello spedizioniere a cui affidarsi, il compimento di adeguate verifiche sulla onorabilità commerciale e professionale e sul possesso dei requisiti necessari (iscrizione all’apposito albo; possesso dei documenti abilitativi, ecc.)
  • l’inserimento di una “clausola 231” nel contratto di spedizione (nella quale si richiede l’osservanza dei principi comportamentali contenuti nel Modello della società)
  • il controllo sulla correttezza dei dati da inserire nella dichiarazione comunicati allo spedizioniere (e l’adeguata formazione del personale all’uopo incaricato)
  • il controllo sulla corretta compilazione da parte dello spedizioniere preventiva alla trasmissione della dichiarazione
  • il controllo sulla bolletta doganale successivamente rilasciata dall’autorità
  • l’eventuale esperimento successivo della procedura di revisione dell’accertamento doganale.
 
  1. Lo status di AEO (Authorized Economic Operator)

Lo status di AEO (=Authorized Economic Operator/Operatore Economico Autorizzato) è un riconoscimento attribuito a soggetti che operano nel commercio internazionale, che attesta il possesso di requisiti di particolare affidabilità nei rapporti con le autorità doganali.

Esso si sostanzia in una autorizzazione al compimento di operazioni doganali in modalità agevolata, rilasciata dalla stessa autorità doganale e sottoposta a monitoraggio costante per verificarne la permanenza dei requisiti; detta autorizzazione è disciplinata dal Codice Doganale UE – con conseguente mutuo riconoscimento di validità tra operatori stabiliti in diversi stati membri-, e si distingue in due tipologie (tra loro cumulabili):

  • AEO C (semplificazioni doganali), che attiene alla affidabilità fiscale/doganale e consente all’operatore economico che ne è in possesso di beneficiare di particolari agevolazioni nel compimento delle operazioni di sdoganamento
  • AEO S (sicurezza) – che attiene alla affidabilità nell’ambito della gestione delle merci e consente all’operatore che ne è in possesso di ottenere agevolazioni nei controlli  in materia di sicurezza

L’art. 39 del CDUE specifica i requisiti che l’operatore deve possedere al fine di poter accedere alle autorizzazioni:

  •  assenza di violazioni gravi o ripetute della normativa doganale e fiscale, compresa l’assenza di trascorsi di reati gravi in relazione all’attività economica del richiedente;
  • dimostrazione, da parte del richiedente, di un alto livello di controllo sulle sue operazioni e sul flusso di merci, mediante un sistema di gestione delle scritture commerciali e, se del caso, di quelle relative ai trasporti, che consenta adeguati controlli doganali;
  •  solvibilità finanziaria, che si considera comprovata se il richiedente si trova in una situazione finanziaria sana, che gli consente di adempiere ai propri impegni, tenendo in debita considerazione le caratteristiche del tipo di attività commerciale interessata;
  •  con riguardo all’AEOC, il rispetto di standard pratici di competenza o qualifiche professionali direttamente connesse all’attività svolta;
  • con riguardo all’AEOS, l’esistenza di adeguati standard di sicurezza, che si considerano rispettati se il richiedente dimostra di disporre di misure idonee a garantire la sicurezza della catena internazionale di approvvigionamento anche per quanto riguarda l’integrità fisica e i controlli degli accessi, i processi logistici e le manipolazioni di specifici tipi di merci, il personale e l’individuazione dei partner commerciali.

E’ di tutta evidenza come in un momento storico connotato dalla progressiva diffusione di criteri internazionali di compliance (si pensi, ad esempio, agli standards ISO) e dall’importanza del possesso di “certificazioni” che attestino l’adeguamento agli standards, il possesso delle autorizzazioni AEO da parte delle imprese operanti nel commercio internazionale comporti indubbi benefici, non solo dal punto di vista formale, bensì dal punto di vista sostanziale, in termini di speditezza dei traffici per le agevolazioni che ne derivano (accesso facilitato alle semplificazioni doganali; riduzioni dei controlli; possibilità di selezionare un luogo specifico per il controllo doganale, ecc)

 

  1. L’importanza dell’aggiornamento del Modello 231: le principali azioni da intraprendere per il contenimento del rischio di commissione dei reati in materia di contrabbando

Riassumendo, alla luce dell’introduzione dell’art. 25sexiesdecies nel D. Lgs. 231/2001, nel caso in cui una società intrattenga scambi commerciali con paesi extra-UE, risulta essenziale procedere con l’aggiornamento del Modello Organizzativo 231 mediante adozione di specifici presidi volti a contenere il rischio di commissione di reati in materia di contrabbando.

In via esemplificativa (e non esaustiva) si indicano le principali azioni che si ritiene debbano essere intraprese:

  • assicurare una efficace razionalizzazione dei processi inerenti alle operazioni commerciali (acquisti/vendite) mediante l’adozione o l’aggiornamento di procedure che regolino specificamente i rapporti commerciali con operatori extra-UE
  • compiere una accurata selezione dei partners commerciali extra-UE in termini di onorabilità, affidabilità commerciale e professionale
  • assicurare la segregazione di funzioni nel processo di gestione delle operazioni doganali
  • impartire una adeguata formazione al personale impiegato nelle aree a rischio 
  • individuare specificamente i soggetti autorizzati a intrattenere rapporti con le autorità doganali (tra soggetti in possesso di adeguata formazione in materia)
  • nel caso in cui ci si avvalga dell’opera di spedizionieri doganali o vettori, monitorare adeguatamente tutte le fasi del rapporto contrattuale (vedasi paragrafo 4)
  • conservare correttamente la documentazione inerente al compimento delle operazioni doganali
  • nominare un responsabile della tenuta della documentazione

Infine, in considerazione dei numerosi contatti con pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio che implica necessariamente la gestione delle operazioni doganali, si ritiene debba essere eseguito un opportuno intervento di coordinamento e armonizzazione con i presidi del Modello 231 finalizzati alla prevenzione dei reati contro la Pubblica Amministrazione.

 

Arianna Bassi

Avvocato del Foro di Bologna

 

 

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Responsabilità 231 e nuovi reati agroalimentari: spunti per una compliance che genera valore

Responsabilità 231 e reati agroalimentari: nel disegno di legge “Nuove norme in materia di illeciti agro-alimentari (A.C. 2427)” nuovi reati presupposto ma anche spunti per una compliance che genera valore

 

  1. Premessa

Il rilevante valore economico (ed identitario) del settore agroalimentare italiano ha portato il Governo, nell’anno di Expo Milano 2015, a nominare una “Commissione per l’elaborazione di proposte di intervento sulla riforma dei reati in materia agroalimentare”. Lo scopo era evidentemente quello di tutelare la produzione agroalimentare e i valori ad essa correlati come la salute pubblica, la sicurezza alimentare, il made in Italy.

La commissione, presieduta dal Dott. Gian Carlo Caselli, elaborò uno schema di disegno di legge che si articolava lungo tre direttrici: la modifica dei reati agroalimentari; la modifica della disciplina di settore; l’introduzione dei reati agroalimentari nel catalogo dei reati presupposto 231.

A cinque anni di distanza, il testo all’esame del Parlamento è attualmente quello compendiato nel DDL “Nuove norme in materia di illeciti agroalimentari (A.C. 2427) presentato alla Camera dei Deputati il 6 marzo 2020. 

  1. Le “imprese alimentari” destinatarie della riforma

La presa di coscienza dell’importanza che il settore agroalimentare riveste per il nostro Paese è vivamente presente nel DDL, il cui scopo dichiarato è garantire il massimo grado di tutela attraverso la responsabilizzazione delle imprese operanti nel settore e l’inclusione dei reati agroalimentari nel catalogo dei reati presupposto 231.

Dal punto di vista delle imprese, giova premettere che ciò che più impatta sotto il profilo della compliance 231 risiede nel dettato normativo dell’art. 6bis che verrebbe introdotto nel D. Lgs. 231/2001, recante una disciplina peculiare per il Modello 231 dell’ente qualificato come impresa alimentare secondo la definizione contenuta all’art. 3 Regolamento (CE) n. 178/2002.

L’art. 3 del citato Regolamento offre una definizione molto ampia di “impresa alimentare”, dovendosi intendere per tale “ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti” (a prescindere, dunque, dalla forma giuridica rivestita): in forza di tale richiamo, la platea di soggetti destinatari della riforma diviene quindi piuttosto estesa.

  1. L’introduzione dei reati agroalimentari nel catalogo dei reati presupposto 231

Quanto al catalogo dei reati presupposto, la riforma introduce due nuovi articoli al D.Lgs. 231/01, contenenti in parte nuove fattispecie incriminatrici e in parte delitti già esistenti ma riformulati.

L’art. 25-bis.2, “Frodi nel commercio di prodotti alimentari” andrà ad annoverare come reati presupposto i delitti di cui agli articoli 517-sexies c.p. (Frode nel commercio di alimenti, punito con sanzione pecuniaria fino a 300 quote), 517-septies c.p. (“Commercio di alimenti con segni mendaci”, punito con sanzione pecuniaria fino a 300 quote), 517-quater c.p. (“Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari”, punito con sanzione pecuniaria da 100 a 400 quote), 517-quater.1 c.p. (“Agropirateria, punito con sanzione pecuniaria da 200 a 800 quote oltre alla possibilità di applicazione di sanzioni interdittive).

L’art. 25-bis.3 “Delitti contro la salute pubblica”, ricomprenderà invece il riformulato art. 439 c.p. (“Avvelenamento di acque o di alimenti”, punito con sanzione pecuniaria da 500 a 1000 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività da 1 a 2 anni), l’art. 440 c.p. “Contaminazione, adulterazione o corruzione di acque, alimenti o medicinali”, punito con sanzione pecuniaria da 500 a 800 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività da 1 a 2 anni, l’art. 440-bis c.p. (“Importazione, esportazione, commercio, trasporto, vendita o distribuzione di alimenti, medicinali o acque pericolosi”, punito con sanzione pecuniaria da 300 a 600 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività da 6 mesi a 1 anno, l’art. 440-ter c.p. (“Omesso ritiro di alimenti, medicinali o acque pericolosi”, punito con sanzione pecuniaria fino a 300 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività fino a 6 mesi), l’art. 440-quater c.p. (“Informazioni commerciali ingannevoli o pericolose”, punito con sanzione pecuniaria fino a 300 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività fino a 6 mesi), l’art. 440-quater c.p. (“Informazioni commerciali ingannevoli o pericolose”, punito con sanzione pecuniaria fino a 300 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività fino a 6 mesi), il nuovo delitto ex art. 445-bis c.p. (“Disastro Sanitario” punito con sanzione pecuniaria da 400 a 800 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività da 1 a 2 anni) e infine le ipotesi colpose di cui all’art. 452 c.p., punite con sanzione pecuniaria fino a 300 quote oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività fino a 6 mesi.

  1. Un “doppio binario” di responsabilità per le imprese alimentari: il Modello organizzativo “speciale”

Ciò che, tuttavia, risulta più meritevole di attenzione è l’introduzione di un vero e proprio “doppio binario” di responsabilità per le imprese alimentari. Gli enti della filiera agroalimentare potranno adottare un Modello organizzativo esimente che fin dalla relazione introduttiva al DDL è stato qualificato come “speciale”.

Il connotato di “specialità” trae origine dalla disciplina specifica (contenuta all’art. 6bis) che il Legislatore riserva ai Modelli Organizzativi adottati dalle imprese agroalimentari, che si caratterizza per l’individuazione degli obblighi giuridici nazionali e sovranazionali il cui adempimento deve essere assicurato dal Modello affinchè esso abbia efficacia esimente (o attenuante) della responsabilità, secondo la lettera della legge relativi:

  1. a) al rispetto dei requisiti relativi alla fornitura di informazioni sugli alimenti;
  2. b) alle attività di verifica sui contenuti delle comunicazioni pubblicitarie al fine di garantire la coerenza degli stessi rispetto alle caratteristiche del prodotto;
  3. c) alle attività di vigilanza con riferimento alla rintracciabilità, ossia alla possibilità di ricostruire e di seguire il percorso di un prodotto alimentare attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
  4. d) alle attività di controllo sui prodotti alimentari, finalizzate a garantire la qualità, la sicurezza e l’integrità dei prodotti e delle loro confezioni in tutte le fasi della filiera;
  5. e) alle procedure di ritiro o di richiamo dei prodotti alimentari importati, prodotti, trasformati, lavorati o distribuiti non conformi ai requisiti di sicurezza degli alimenti;
  6. f) alle attività di valutazione e di gestione del rischio, compiendo adeguate scelte di prevenzione e di controllo;
  7. g) alle periodiche verifiche sull’effettività e sull’adeguatezza del modello.

Al di là da quanto richiesto alle lettere f) e g), che fanno riferimento a elementi già tipicamente presenti nei Modelli 231 “tradizionali”, la portata innovativa della riforma risiede nell’introduzione di obblighi specifici di compliance rispetto ad un ventaglio di leggi speciali interne ed europee. Le normative cui fa implicitamente rinvio il nuovo art. 6bis attengono, da una parte, a obblighi a tutela dell’interesse dei consumatori (lett. a e b) e, dall’altra, a obblighi a protezione della genuinità e sicurezza degli alimenti (lett. c, d ed e). Quanto alla precisa identificazione delle stesse, occorre rilevare che in taluni casi si tratta di norme di ampia applicazione quali il Reg. (UE) n. 1169/2011 circa le pratiche leali di informazione, o il Reg. (CE) n. 178/2002 sulla rintracciabilità della filiera agroalimentare cui si aggiungono le normative specifiche di ciascun settore merceologico. 

Il DDL individua altresì, i requisiti minimi essenziali del Modello “speciale” e lo fa attingendo a piene mani dalla disciplina del Modello previsto dall’art. 30 D.Lgs. 81/08 (Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro).

Viene, infatti, previsto che i Modelli delle imprese agroalimentari debbano in ogni caso:

  1. a) prevedere idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività ivi prescritte;
  2. b) prevedere un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, la valutazione, la gestione e il controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello;
  3. c) prevedere un idoneo sistema di vigilanza e di controllo sull’attuazione del modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Viene, inoltre, specificato che iI riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla genuinità e alla sicurezza dei prodotti alimentari o alla lealtà commerciale nei confronti dei consumatori ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.

Come è evidente, si tratta di elementi che, sebbene solo in parte presenti nei requisiti del Modello ex art. 6 D. Lgs. 231/01 sono comunque già ampiamente previsti dalle best practices in ambito 231 perché in grado di coniugare gli obiettivi di risk management con quelli di miglioramento dell’organizzazione aziendale.

 

  1. Un “doppio binario” di responsabilità per le imprese alimentari: contorni applicativi

Il progetto di riforma contiene significative modifiche anche sotto il profilo dei soggetti attivi dell’illecito 231: il richiamo effettuato nell’incipit dell’art. 6bis, che fa rinvio al solo articolo 6 del D. Lgs. 231/01 – che regola l’esenzione da responsabilità dell’ente nel caso in cui il reato presupposto sia commesso da soggetto che riveste ruolo “apicale” – e non anche all’art. 7 – che regola l’esenzione da responsabilità dell’ente nel caso in cui il reato presupposto sia commesso da un “sottoposto” – sembra restringere l’ambito di azione del nuovo Modello ai soli reati commessi da soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione. Le ragioni di tale limitazione non sono chiare. La scelta appare peraltro del tutto incoerente rispetto alla spinta estensiva della responsabilità amministrativa da reato che, grazie al DDL in parola viene estesa a nove nuove fattispecie incriminatrici cui si aggiungono le ulteriori fattispecie colpose indicate dall’art. 452 c.p. (per inciso, le prime fattispecie colpose ad essere introdotte a seguito di quelle in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 25septies D. Lgs. 231/01). 

Ulteriore elemento che merita considerazione (soprattutto in un’ottica di efficace gestione del rischio penale d’impresa), è che la riforma affianca all’efficacia esimente del Modello speciale una inedita efficacia “attenuante”. Il contenuto e la portata di tale attenuante (nonché i contorni applicativi rispetto all’efficacia esimente ed alla riduzione della sanzione pecuniaria in caso di adozione del Modello post factum) non sono meglio definiti dal Legislatore e pertanto saranno la prassi e la giurisprudenza a connotarle di significato.

Altra innovazione di significativa portata è quella prevista dal comma 3, il quale prevede che nelle PMI l’Organismo di Vigilanza possa essere monocratico “purchè dotato di adeguata professionalità e specifica competenza anche nel settore alimentare e individuato da un apposito elenco approntato dalle Camere di Commercio: il che costituisce un elemento di novità rispetto al passato, in quanto la professionalità dei membri degli OdV non era mai stata specificamente individuata.

  1. Ulteriori novità della riforma: la delega di funzioni in materia agroalimentare

Il progetto di riforma in commento si prefigge anche l’apprezzabile obiettivo di disciplinare la delega di funzioni in materia agroalimentare.

Per quel che interessa in questa sede, si rivolge l’attenzione alle condizioni di ammissibilità della delega delineate dall’art. 1bis che verrà introdotto nella L. 283/1962, per le quali il Legislatore sembra attingere a piene mani da quanto prescritto dall’art. 16 D.Lgs. 81/08 (regolante la delega di funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro).

In particolare, la delega di funzioni del titolare dell’impresa alimentare, per essere idonea a trasferire poteri ma soprattutto (per quel che interessa alla materia penale) responsabilità, dovrà:

  1. a) risultare da atto scritto avente data certa;
  2. b) individuare un delegato dotato di requisiti di professionalità ed esperienza adeguati per le funzioni delegate;
  3. c) attribuire, insieme alla responsabilità, poteri organizzativi e gestori;
  4. d) garantire al delegato autonomia di spesa per lo svolgimento della delega;
  5. e) essere accettata per iscritto dal delegato.

E’ noto come la delega di funzioni costituisca uno strumento importante non solo dal punto di vista dell’ottimizzazione organizzativa dell’attività di impresa, bensì anche dal punto di vista della tutela da responsabilità penale “da posizione”: in tale contesto, le condizioni di ammissibilità della delega individuate dalla riforma, sebbene non circostanziate, assumono significativa rilevanza (se sapientemente adattate alle peculiarità strutturali dell’impresa) poiché forniscono i criteri orientativi per formalizzare una delega efficace.

Inoltre, pare opportuno evidenziare la correlazione stabilita tra la delega di funzioni e il Modello organizzativo: il Legislatore, dopo aver ribadito il consolidato principio per cui “la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza a carico del titolare in ordine al corretto svolgimento delle funzioni trasferite da parte del delegato”, chiarisce che “l’obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di organizzazione e gestione ai sensi dell’articolo 6-bis del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.”: dunque, la predisposizione di una buona organizzazione sembra spiegare effetti positivi anche con riguardo all’efficacia della delega di funzioni.

  1. Conclusioni

La riforma dei reati agroalimentari si presenta come una vera e propria rivoluzione copernicana per le imprese del settore, e non vi è dubbio che l’intervento del Legislatore ponga a carico di tali soggetti economici oneri significativi dal punto di vista dell’adeguamento normativo. Allo stesso tempo, tuttavia, è essenziale saper cogliere gli spunti offerti dalla riforma anche, se necessario, rimettendo mano all’organizzazione dell’impresa per giungere ad una piena integrazione della compliance e convertire così gli sforzi profusi in un vantaggio competitivo e reputazionale.

 

Alberto Bernardi

Avvocato del Foro di Bologna