L’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021: alcune osservazioni sui riflessi in materia di compliance delle strutture sanitarie
– pubblicato il 6 maggio 2021 –
- Premessa: origine dell’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari
Fin dalla sua prima stesura il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 aveva individuato la categoria degli operatori sanitari e socio-sanitari come la prima categoria di lavoratori da sottoporre con priorità a vaccinazione in quanto estremamente esposti al contagio (e all’ulteriore trasmissione) nonché per consentire la “resilienza del servizio sanitario”. Secondo le stime contenuto del Piano si tratta di circa 1,4 Mln di lavoratori.
Ben presto però, all’interno della (variegata) macro-categoria degli operatori sanitari si sono manifestate alcune resistenze circa la volontà di sottoporsi alla vaccinazione. Le pressioni del mondo scientifico (e politico) hanno portato il Governo ad introdurre, con l’art. 4 D.L. 44/2021, l’obbligo vaccinale per tale categoria di lavoratori.
- I destinatari e i contorni applicativi dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021
I soggetti interessati da quanto previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021 sono:
- gli esercenti le professioni sanitarie;
- gli operatori di interesse sanitario in strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali in strutture pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.
Nonostante la norma di legge si esprima in termini perentori, quanto disposto dalla norma, entrata in vigore il 1 aprile 2021, non può essere qualificato propriamente un obbligo vaccinale. In forza della nuova disposizione, infatti, il lavoratore interessato non viene coattivamente obbligato a sottoporsi al trattamento sanitario non voluto -ciò avrebbe presentato profili di dubbia compatibilità con la Costituzione- ma tale astensione è qualificata per legge come incompatibile con l’esercizio delle mansioni sanitarie.
Il Legislatore ha infatti inteso qualificare la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da COVID-19 come un requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle attività lavorative sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali.
Di fronte al rifiuto dell’operatore sanitario di sottoporsi alla vaccinazione, il datore di lavoro ha facoltà di assegnarlo, ove possibile, ad altre mansioni anche inferiori “che comunque non implicano rischi di diffusione del contagio”.
Laddove ciò non sia possibile la struttura dovrà procedere alla sospensione del lavoratore fino all’assolvimento dell’obbligo e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Per tale periodo la legge dispone che al lavoratore non è dovuta alcuna retribuzione; egli ha il solo diritto alla conservazione del posto di lavoro.
L’unica eccezione contemplata dalla normativa è che il lavoratore non possa sottoporsi alla vaccinazione per accertate ragioni di salute: in questo caso la stessa può essere differita o omessa e il datore di lavoro potrà assegnare il lavoratore a mansioni anche diverse “in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio”.
- La valutazione del rischio di contagio in presenza di operatori sanitari non vaccinati da parte del datore di lavoro
Le due situazioni delineate dal Legislatore, il rifiuto ovvero l’impossibilità (assoluta o temporanea) del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione impongono al datore di lavoro una rimodulazione dell’organizzazione del lavoro che, fermi restando i ben noti presidi di sicurezza già da tempo certamente attuati dovrà mettere in atto gli strumenti di prevenzione individuati dalla normativa, in particolare il demansionamento e la sospensione dall’attività lavorativa (art. 4 co. 8 D.L. 44/2021).
Va precisato che tali misure riprendono quanto già previsto dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 81/08, TUSL) in relazione all’esposizione dei lavoratori ad agenti biologici ed, in particolare, all’art. 279 TUSL che, in caso di giudizio di inidoneità alla mansione da parte del medico competente, prescrive al datore di lavoro di allontanare temporaneamente il lavoratore adibendolo a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori.
Ad ogni modo, la valutazione del rischio va rimodulata rispetto alla particolare situazione pandemica in atto: in tale prospettiva, la presenza sul luogo di lavoro di un operatore non vaccinato costituisce una variabile che deve essere adeguatamente tenuta in considerazione nella riorganizzazione del lavoro. Invero, la peculiarità delle mansioni tipicamente svolte dagli operatori sanitari, che presuppongono il contatto frequente e prolungato con soggetti (i pazienti) estranei all’organizzazione lavorativa, fanno sì che l’omessa vaccinazione del lavoratore impatti sul rischio di contagio e diffusione; rischio soltanto in parte mitigato dall’uso dei DPI e dalla vaccinazione degli altri lavoratori. Com’è noto, infatti, la vaccinazione contro COVID-19 è uno strumento idoneo ed efficace per prevenire manifestazioni gravi della malattia ma non garantisce la totale immunizzazione dei soggetti che vi si sono sottoposti. Come ricorda l’ISS, infatti, tutti i lavoratori, inclusi gli operatori sanitari, devono continuare a utilizzare rigorosamente i DPI, i dispositivi medici prescritti, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico e le altre precauzioni indipendentemente dallo stato di vaccinazione.
- Profili di applicabilità della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 in caso di contagio da COVID-19 dell’operatore sanitario non vaccinato; l’importante funzione del Modello 231 quale strumento coordinatore di compliance
Laddove la struttura sanitaria non abbia preventivamente disposto l’allontanamento del sanitario non vaccinato e questi abbia contratto la malattia, sussistono gli estremi per la responsabilità ex D. Lgs. 231/01 della struttura sanitaria?
(Può risultare ultroneo precisare che il ragionamento può essere condotto solo con riferimento alle strutture private, poiché il D. Lgs. 231/2001 esclude espressamente l’applicabilità della disciplina agli enti pubblici.)
La portata di una simile questione si apprezza ancor più laddove si consideri che il contagio potrebbe diffondersi ad altri lavoratori amplificando così le conseguenze sanzionatorie, risarcitorie e reputazionali per l’ente.
Per rispondere a tale quesito occorre premettere alcune osservazioni.
Ci troviamo di fronte alla possibile configurabilità dei reati presupposto richiamati dall’art. 25septies del D.Lgs. 231/01 e cioè di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
In base alle evidenze scientifiche fin qui note circa il decorso della malattia, è possibile affermare che l’infezione da COVID-19 possa, in taluni casi, condurre a stati morbosi integranti il reato di lesioni gravi o gravissime e, nei casi più gravi, alla morte.
Tale rilievo, tuttavia, non è di per sé sufficiente a far sorgere la responsabilità 231 in capo alla struttura: occorre domandarsi se nel concetto di violazione della normativa cautelare in ambito SSL possa ricomprendersi l’omessa sospensione e/o demansionamento del lavoratore non vaccinato.
Il quesito trova risposta positiva se solo si considera il dettato normativo del già richiamato art. 279 del TUSL, senza, poi considerare gli ampi spazi entro i quali può muoversi un’imputazione per colpa generica, garantiti dalla portata applicativa piuttosto estesa dell’art. 2087 c.c.
Peraltro, a nulla rileva il fatto che il contagio possa essere derivato dalla scelta, libera e consapevole, del sanitario che ha deciso di non sottoporsi alla vaccinazione in quanto le norme dettate in tema di prevenzione sono dirette a tutelare il lavoratore, non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione ma anche quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso.
Maggiori perplessità sorgono, invece, avendo riguardo alla configurabilità del requisito dell’interesse e vantaggio in capo alla struttura in caso di contagio di un dipendente.
Con riferimento ai reati colposi come quelli di cui sopra, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’interesse e il vantaggio ricorrono allorquando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, e ciò anche indipendentemente dal suo effettivo conseguimento.
L’omessa sospensione del lavoratore non vaccinato, tuttavia, sembra incoerente rispetto al perseguimento dell’interesse o vantaggio inteso come risparmio di spesa in quanto in caso di sospensione non è dovuto alcun trattamento economico.
Ad un esame più approfondito, tuttavia, emerge che il risparmio di spesa non è necessariamente l’unica finalità perseguibile dall’ente.
La struttura sanitaria, invero, potrebbe decidere di non sospendere e/o demansionare il lavoratore non vaccinato in ragione del fatto che ciò comporterebbe una diminuzione dei servizi offerti agli utenti della struttura. Consentire al lavoratore non vaccinato di continuare a svolgere le proprie mansioni, sebbene comporti un esborso economico dovuto allo stipendio da corrispondere allo stesso, consente la massimizzazione della produttività della struttura.
In altre parole, quindi, laddove l’omessa sospensione e/o demansionamento risponda a logiche di massimizzazione della produzione, potrebbe riconoscersi un beneficio dell’ente nella violazione delle norme di salute e sicurezza sul lavoro e di qui la responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs. 231/01.
Ad ogni modo, Il tema dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021 mette in luce l’importanza che assume l’adozione di adeguati assetti organizzativi a fini di compliance anche nel contesto delle strutture sanitarie, soprattutto se si considera la progressiva “aziendalizzazione” che le ha caratterizzate nel corso degli ultimi anni.
In tal caso, le misure organizzative svolgono la funzione principale di assicurare il rispetto degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera fissati nel Decreto del Ministro della Salute 2 aprile 2015, n. 70.
In tale contesto, il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ex D. Lgs. 231/2001, per la sua funzionalità eterogenea si profila quale “contenitore” più idoneo delle misure organizzative volte ad assicurare la compliance agli standard di legge: se ben costruito, infatti, esso risulta idoneo non solo a minimizzare il rischio di commissione di reati, bensì anche di episodi di mala gestio ed assicurare, così, gli standard qualitativi richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.
Dunque, a prescindere dalla possibile contestazione della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, la gestione del rischio di contagio da COVID – 19 diviene questione di estrema rilevanza per assicurare tali standard.
- Gli aspetti rilevanti in materia di privacy afferenti alla verifica di adempimento dell’obbligo vaccinale
Le misure di demansionamento o sospensione del lavoratore vengono adottate a seguito dell’accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale, ad esito di uno specifico iter previsto dallo stesso art. 4 del D.L. 44/2021 che involve diverse tipologie di trattamento di dati personali da sottoporre ad attento monitoraggio.
In via di estrema sintesi, l’iter prevede che entro cinque giorni dall’entrata in vigore del Decreto ciascun Ordine professionale di appartenenza degli esercenti le professioni sanitarie dovesse trasmettere l’elenco dei propri iscritti alla regione o provincia autonoma presso la quale ha sede; e che entro lo stesso termine, i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario dovessero trasmettere agli stessi enti l’elenco dei propri dipendenti.
Successivamente, le regioni e le province autonome avrebbero dovuto verificare lo stato vaccinale dei soggetti contenuti negli elenchi, per poi segnalare all’Azienda Sanitaria Locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultavano vaccinati; l’Azienda Sanitaria Locale avrebbe poi richiesto ai soggetti in questione di presentare entro cinque giorni la documentazione comprovante la vaccinazione, l’omissione o il differimento in relazione a specifiche condizioni cliniche; in caso di mancata presentazione della documentazione, l’Azienda Sanitaria dovrebbe quindi accertare il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale con immediata comunicazione all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine Professionale di appartenenza.
Dall’iter delineato all’art. 4 emergono alcune questioni di rilievo in ordine al corretto trattamento dei dati.
Prima dell’entrata in vigore del D.l. 44/2021, risultava pacifico che il datore di lavoro (di qualsiasi categoria di lavoratori) non potesse conoscere lo “stato vaccinale” dei dipendenti, prerogativa riconosciuta al solo medico competente (ad esempio, anche riguardo alle misure di sicurezza da adottare in caso di esposizione al rischio di agenti biologici di cui all’art. 279 TUSL, l’eventuale allontanamento o cambiamento di mansioni era da ricondurre ad un certificato di inidoneità del medico competente); tale posizione era stata assunta anche dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
L’art. 4 D.L. 44/2021 sembra, però, disporre diversamente, prevedendo la comunicazione di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale da parte delle Aziende Sanitarie direttamente al datore di lavoro (e non al medico competente).
Sebbene, in tal caso, il datore di lavoro opererebbe sulla base giuridica dell’adempimento di un obbligo di legge (art. 9, c. 2, lett. b) GDPR 2016/679), ciò potrebbe presentare profili di compatibilità con la disciplina generale in materia di protezione dei dati personali,
A seguito dell’entrata in vigore del D.L. 44/2021, l’Autorità Garante ha già manifestato alcune perplessità – in particolare, con riferimento alla necessità di definire con maggiore esattezza i soggetti interessati dall’obbligo vaccinale, le tipologie di dati da trattare con specifiche garanzie per quelli dei soggetti esentati dall’obbligo, dai quali possono desumersi patologie e le modalità di realizzazione del flusso informativo ed alla mancata previa consultazione dell’Autorità prima dell’adozione -, auspicando che in sede di conversione il decreto legge assuma contorni di piena conformità.
Giova precisare che la normativa di cui al GDPR è costruita in maniera piuttosto elastica: pur riconoscendo la crescita esponenziale dei trattamenti di dati personali e la conseguente necessità di approntare misure comuni a salvaguardia della liceità dei trattamenti, in diversi passaggi del Regolamento si precisa che il diritto alla protezione dei dati debba essere sempre bilanciato con la tutela di altri diritti fondamentali, come (in questo caso) il diritto alla salute e le esigenze di tutela della salute pubblica.
Si prenda ad esempio quanto definito dal considerando (52) del GDPR: La deroga al divieto di trattare categorie particolari di dati personali dovrebbe essere consentita anche quando è prevista dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, fatte salve adeguate garanzie, per proteggere i dati personali e altri diritti fondamentali, laddove ciò avvenga nell’interesse pubblico, in particolare il trattamento dei dati personali nel settore del diritto del lavoro e della protezione sociale, comprese le pensioni, e per finalità di sicurezza sanitaria, controllo e allerta, la prevenzione o il controllo di malattie trasmissibili e altre minacce gravi alla salute; o dal considerando (54): Il trattamento di categorie particolari di dati personali può essere necessario per motivi di interesse pubblico nei settori della sanità pubblica senza il consenso dell’interessato.
Pertanto, in considerazione della emergenza pandemica in atto, è verosimile ipotizzare che le compressioni saranno giudicate, in ultima analisi, come rientranti in confini di liceità: ciò non esime, tuttavia, le strutture sanitarie dal dovere di assicurare un elevato grado di monitoraggio sulle misure tecniche e organizzative adottate affinchè venga assicurata piena correttezza nei processi di trattamento dei dati.
- Conclusioni
L’estrema diffusività del virus e le accennate peculiarità degli ambienti di lavoro ove operano i sanitari impongono estrema attenzione nella valutazione del rischio e nell’implementazione di adeguate misure organizzative.
Se, come sembrano indicare le autorità sanitarie, serviranno ulteriori richiami della vaccinazione anti COVID-19 è certo che le problematiche summenzionate si estenderanno ben oltre la data del 31 dicembre prevista dal Decreto legge.
Ne consegue l’esigenza, da parte delle strutture sanitarie, di approntare fin da subito dei protocolli operativi da attuare tempestivamente in presenza di lavoratori che non aderiscano alle previste vaccinazioni volte non solo al contenimento del contagio, ma anche ad assicurare la compliance agli standard richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.
Arianna Bassi e Alberto Bernardi
Avvocati del Foro di Bologna