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Riders, caporalato digitale e misure di prevenzione: il caso UBER

Riders, caporalato digitale e misure di prevenzione: il contrasto alle nuove forme di sfruttamento del lavoro nelle decisioni del Tribunale di Milano sul caso UBER

– pubblicato il 17 maggio 2021–


  1. Premessa

La Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, con il decreto 3 marzo 2021 ha disposto la revoca della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34, co. 1, Codice Antimafia precedentemente disposta con decreto n. 9/2020 nei confronti della società Uber Italy S.r.l., controllata italiana della nota multinazionale del delivery Uber Portier BV.

Tale provvedimento – da leggersi necessariamente insieme al decreto genetico della misura n. 9/20 – e più in generale l’intera vicenda processuale nell’ambito della quale sono stati adottati, appaiono di particolare interesse sotto tre diversi profili.

In primo luogo, per come costituiscano la cartina tornasole della idoneità dell’art. 603 bis c.p., nella sua nuova formulazione, a colpire anche forme avanzate e non convenzionali di caporalato.

In secondo luogo, per la pluralità degli strumenti preventivi in grado di tutelare il fisiologico andamento del mercato del lavoro, e, più nello specifico, di evitare forme di sfruttamento dei lavoratori.

Da ultimo – ed è ciò che rileva maggiormente in questa sede – per la scelta, tutt’altro che scontata, del Tribunale di Milano di procedere con il combinato utilizzo di due strumenti di prevenzione: l’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34, D. Lgs. n. 159/2011, come riformulata dalla L. n. 161/2017, e il modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dagli artt. 5 e 6, D. Lgs. n. 231/2001.


  1. La vicenda giudiziaria

Il procedimento di prevenzione sfociato nei decreti in commento trova origine nell’ambito di un’indagine volta ad accertare la possibile commissione del reato di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro in danno dei c.d. “riders” da parte delle imprese che ne gestivano le consegne.

La Procura di Milano, quale autorità giudiziaria proponente, segnalava come l’attività investigativa svolta nell’ambito di tale procedimento avesse delineato un solido quadro indiziario circa la sussistenza di una attività agevolatrice rilevante ai sensi dell’art. 34, D. Lgs. n. 159/2011, posta in essere da Uber Italy S.r.l. nella realizzazione del reato di cui all’art. 603 bis c.p.

Tale delitto, in ipotesi d’accusa, veniva contestato a cinque managers della stessa società proposta insieme a due società intermediarie (Flash Road City e FRC S.r.l.) che si occupavano di reclutare e gestire le flotte di fattorini per conto di Uber in virtù di specifici accordi contrattuali di prestazioni tecnologiche.

Tali contratti, dalla lettura delle motivazioni del decreto, sembrerebbero non avere costituito altro che una mera fornitura illecita di manodopera, in quanto priva dei requisiti di liceità di un appalto di servizi: organizzazione dei mezzi in capo all’appaltatore, esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, assunzione del rischio di impresa.

Veniva infatti riscontrato che, in virtù di tali accordi, i riders, anche se si trovavano concretamente ad operare per conto e sotto le direttive di Uber, venivano reclutati dalle due società intermediarie in virtù di un rapporto contrattuale di collaborazione occasionale.

In particolare, tali società intermediarie definite “fleet partners”, reclutavano le flotte di fattorini tra soggetti vulnerabili sotto un profilo personale e sociale. Si trattava in particolare di cittadini extracomunitari, spesso dimoranti presso centri di accoglienza, a rischio di espulsione ed in grande difficoltà economica, che, in virtù di ciò si trovavano costretti ad accettare condizioni lavorative svalutanti, se non a subire vere e proprie condotte vessatorie e di sfruttamento della manodopera.

In questo modo, con la consapevolezza e l’agevolazione da parte di Uber, le società intermediarie generavano guadagni grazie al rilevante abbattimento dei costi del personale, in assoluto spregio dei diritti dei lavoratori.

A fronte di tale quadro, il Tribunale di Milano, con decreto 9/2020, ritenendo sussistente in capo a Uber Italy S.r.l. – qualificata come unità organizzativa di Uber Portier BV operante sul territorio italiano – l’agevolazione delle società intermediarie nella commissione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. applicava a questa la misura della amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia al fine di risanare l’azienda riportandone il relativo business entro i binari della legalità.

Per il raggiungimento di tale scopo, il Tribunale si è spinto sino ad indicare all’amministratore giudiziario specifici interventi e specifiche attività da svolgersi di concerto con l’organo amministrativo di Uber Italy S.r.l. Tra queste, la mappatura dei rapporti tra la società proposta e le altre aziende facenti parte del “Gruppo Uber”, l’analisi dei rapporti contrattuali in essere con i lavoratori del settore delivering al fine di comprendere se operino in condizioni di sfruttamento e la valutazione circa l’esistenza e l’idoneità del Modello Organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01.

Venivano così poste le condizioni necessarie per un penetrante ed effettivo controllo sull’attività degli organi gestori salvaguardando al contempo la continuità e il normale esercizio dell’attività di impresa da parte di Uber Italy S.r.l. senza procedere a trasferire all’amministratore giudiziario il quotidiano svolgimento della stessa nella sua interezza.

Poste tali indicazioni, a distanza di neanche un anno dall’applicazione della misura di prevenzione, con decreto 21 marzo 2021 il Tribunale di Milano, accertata l’osservanza delle prescrizioni impartite, ha quindi provveduto alla revoca della misura di prevenzione in precedenza disposta.


3.1. I profili di interesse dei decreti: l’esteso ambito applicativo dell’art. 603 bis c.p. nella sua attuale formulazione

Come anticipato, la vicenda giudiziaria in esame assume particolare interesse in primo luogo nella misura in cui costituisce dimostrazione della versatilità applicativa dell’art. 603 bis c.p. nella sua formulazione successiva alla L. 199/16.

È noto, infatti, che fino al 2011 il contrasto al c.d. “caporalato” trovasse una tutela penale unicamente in poche fattispecie contravvenzionali, fondamentalmente poste a tutela di altre norme di tipo lavoristico, e sprovviste di efficacia deterrente in quanto punite con la pena dell’ammenda e agevolmente oblazionabili.

In assenza di un impianto normativo in grado di sanzionare le forme più gravi di sfruttamento dei lavoratori, la Giurisprudenza – come spesso accade – si è trovata a dover sopperire a tale mancanza del Legislatore facendo ricorso ad altre figure delittuose (quali riduzione in schiavitù, sequestro di persona, violenza privata o estorsione).

Restavano tuttavia al di fuori del perimetro di un’adeguata tutela penale tutte quelle ipotesi in cui i diritti del lavoratore venivano compromessi in maniera assai incisiva, senza che tuttavia lo stesso si trovasse in uno stato di completo assoggettamento e costrizione da parte del datore di lavoro o dell’intermediario (il c.d. “caporalato grigio”).

A fronte di ciò, un primo passo in avanti nella direzione di una tutela piena del lavoratore si è avuto con l’introduzione, ad opera della L. n. 138/2011, del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro inserito all’art. 603 bis c.p.

Tuttavia, sin da subito appariva evidente la ridotta portata applicativa di tale disposizione, che, all’atto pratico scontava alcuni limiti strutturali, quali la necessità che l’attività di sfruttamento dovesse avvenire secondo le specifiche modalità della violenza, della minaccia o dell’intimidazione, oltre a particolari difficoltà in punto di prova dello svolgimento in forma organizzata dell’attività di reclutamento di manodopera. Oltre a ciò, l’art. 603 bis c.p. andava a colpire la sola attività di intermediazione, lasciando impunita la condotta di impiego da parte del datore di lavoro.

Presa consapevolezza di ciò, il legislatore è nuovamente intervenuto con la L. 199/2016 per modificare il testo dell’art. 603 bis c.p. ed eliminarne i limiti applicativi.

Tale intervento si è dimostrato efficace e l’attuale formulazione della norma, come dimostrato dai provvedimenti in commento, sembra essere in grado di modulare e adeguare la risposta sanzionatoria rispetto alla gravità dell’illecito.

La norma spicca per la capacità di trovare applicazione non più solo in determinati settori produttivi (tradizionalmente quello agricolo e quello edile) ma a tutte le ipotesi in cui il prestatore di lavoro si trovi costretto ad accettare situazioni di sfruttamento per far fronte al proprio stato di bisogno: infatti, rispetto alla formulazione antecedente alla riforma del 2016, viene punita non solo la condotta di “reclutamento”, bensì anche quella (“diretta”) di utilizzazione, assunzione e impiego di manodopera anche mediante reclutamento.

Inoltre, la punibilità del reato non viene più subordinata alle modalità attuative di violenza, minaccia o intimidazione, prevedendo per tali casi un’aggravante speciale, così da procedere con una risposta sanzionatoria proporzionale al concreto disvalore del fatto.

Grazie a tali formulazioni, la norma si trova quindi ad operare ad ampio spettro, anche rispetto a situazioni di sfruttamento particolarmente subdole o sfumate, senza tuttavia andare a pregiudicare il principio di legalità, in quanto la tipicità della norma viene poi garantita tramite l’illustrazione di una serie di indici legali sintomatici della sussistenza delle condizioni di sfruttamento.

L’art. 603 bis c.p. appare quindi perfettamente idoneo ad inquadrare la vicenda in esame, da alcuni definita come “caporalato digitale” caratterizzata da una forma occulta e celata di sfruttamento da parte del datore di lavoro e di approfittamento da parte dei soggetti reclutatori, ed in cui la piattaforma internet viene a costituire “uno schermo per il datore di lavoro in grado di spersonalizzare le sue tradizionali prerogative”. [1]


3.2. I profili di interesse dei decreti: la pluralità di strumenti preventivi dello sfruttamento dei lavoratori e dell’alterazione del mercato del lavoro

I decreti in esame, oltre che per avere inquadrato quello che viene ormai definito “sfruttamento digitale dei ciclofattorini” sotto la nuova formulazione dell’art. 603 bis c.p., rilevano inoltre per costituire la concreta applicazione degli ulteriori istituti di cui l’autorità giudiziaria può ora usufruire nel contrastare quei fenomeni di esercizio dell’attività di impresa secondo modalità in tutto o in parte criminose.

La già citata L. 199/2016 ha innovato profondamente anche sotto tale profilo.

In primo luogo ha, infatti, esteso anche all’art. 603 bis c.p. la confisca obbligatoria, anche per equivalente ex art. 12 sexies D.L. n. 306/92, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto.

Oltre a ciò, con l’art. 3, ha introdotto la misura – alternativa al sequestro dell’azienda – del controllo giudiziario dell’”azienda presso cui è stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”, con relativa nomina di un amministratore con il compito di affiancare l’organo gestorio nell’adempimento di specifiche prescrizioni volte ad evitare che si reiterino “situazioni di grave sfruttamento lavorativo”, senza tuttavia procedere allo spossessamento dell’azienda.

Infine, tale novella legislativa ha inserito il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. nel novero dei reati presupposto di cui all’art. 25 quinquies D. Lgs. n. 231/01 dalla cui commissione può derivare la responsabilità amministrativa dell’ente ove vengano accertati gli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito 231.

Da ultimo, per ciò che rileva maggiormente in questa sede, è intervenuta la riforma del Codice Antimafia del 2017, che ha inserito il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. nel novero dei reati suscettibili di fondare l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 D. Lgs. n. 159/2011.

A differenza del controllo giudiziario, fine specifico di tale misura di prevenzione è quello di rimuovere le situazioni di fatto e di diritto riconnesse all’esercizio di attività economiche che possano agevolare l’operato di persone indiziate di avere commesso il delitto di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro, tramite un – almeno parziale – spossessamento gestorio.

Il panorama degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria per risanare le imprese da forme di imprenditorialità illecite senza pregiudicarne la continuità aziendale, come si vede, è quindi molto ampio e assortito, con opzioni diverse che variano in base ai presupposti e delle specifiche finalità da perseguire nel caso concreto.

Come si avrà modo di osservare più approfonditamente di seguito, è proprio la pluralità dei rimedi messi a disposizione dall’ordinamento e i criteri di scelta degli stessi a costituire, forse, il profilo di maggior interesse delle decisioni prese dal Tribunale milanese nella vicenda Uber.


3.3. I profili di interesse dei decreti: la scelta del Tribunale di Milano di optare per il ricorso all’amministrazione giudiziaria e, attraverso questa, allo strumento del modello organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01

Alla luce di quanto appena esposto, ben si comprende come l’aspetto di maggior interesse dei decreti in commento sia costituito dalla scelta di colpire le nuove forme di sfruttamento del lavoro legate alla c.d. gig economy, come quella posta in essere da Uber Italy S.r.l. e le società intermediarie Flash Road City e FRC S.r.l. tramite il combinato ricorso allo strumento dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia e, attraverso questa, del Modello di Organizzazione e Gestione ex D. Lgs. n. 231/01.

Con il decreto del 27 maggio 2020, infatti, il Tribunale di Milano, riscontrata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all’art. 603 bis c.p. in capo ai managers delle società fleet partner, si sofferma sull’analisi degli elementi sulla base dei quali ritenere che la multinazionale Uber (e più specificatamente la sua articolazione italiana Uber Italy S.r.l.) abbia agevolato la commissione di tale reato presupposto nell’assoluta consapevolezza dello sfruttamento perpetrato nei confronti dei riders da Flash Road City e da FRC S.r.l.

A fronte di ciò, il giudice milanese ritiene di poter ben ricorrere alla misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia in quanto l’amministrazione giudiziaria consentirebbe un intervento sulla gestione imprenditoriale della società proposta non completamente ablatorio, ma commisurato a quanto necessario per il pieno risanamento dell’impresa. Il provvedimento valorizza così la lettera dell’art. 34 secondo cui l’amministratore giudiziario avrebbe la facoltà di esercitare i poteri tipici dell’organo gestorio secondo le modalità stabilite dal Tribunale e non anche l’obbligo di esercitare in toto l’attività d’impresa.

Poste tali premesse, ed analizzata in parte motiva i diversi elementi da valutare al fine di scegliere il tipo di misura più adeguata a giungere al risultato di una “bonifica aziendale”, il Tribunale ritiene proporzionata la misura dell’amministrazione giudiziaria della durata di un anno, lasciando il normale esercizio dell’impresa agli organi gestori, e quindi senza una completa immissione nel possesso dei beni aziendali da parte dell’amministratore stesso.

Questi, per contro, viene incaricato di specifici compiti quali (i) esaminare e riportare al Tribunale le iniziative attuate da Uber Italy S.r.l. a seguito della misura di prevenzione con specifico riguardo alla composizione degli organi amministrativi e dei rapporti contrattuali con i dipendenti e i terzi, (ii) assicurare la propria costante presenza presso la sede societaria e la partecipazione alle attività societarie, (iii) revisionare tutti i contratti in essere con i terzi operanti nel mercato del delivery verificando il loro rispetto delle prescrizioni legali oltre che di autorizzare la stipula di nuovi contratti con i riders, (iv) valutare l’atteggiamento assunto dalla società proposta e se la misura ha dispiegato gli effetti sperati.

Ma, prima di ciò – ed è questo il punto più innovativo, ma al tempo stesso più problematico del provvedimento – l’amministratore giudiziario viene incaricato dal Tribunale di “esaminare l’assetto della società con particolare riferimento ai rapporti intercorrenti con le altre società del gruppo UBER ed in particolare UBER EATS ITALY S.r.l. avente sede legale sempre in Milano, UBER PORTER B.V. con sede legale in Amsterdam accertando quale sia il modello organizzativo e gestionale redatto ex art. 6 II comma D. Lgs. n. 231/2001 (e dunque con particolare cura nella valutazione della idoneità del modello “a prevenire reati della specie di quello verificatosi”)”.

A fronte di ciò, come peraltro evidenziato nella relazione conclusiva del proprio incarico da parte dell’amministratore giudiziario, la società ed i suoi vertici di concerto con quest’ultimo si sono sin da subito attivati per ottemperare alle prescrizioni dettate dal Tribunale.

In particolare, oltre alla cessione del ramo d’azienda del delivery food a favore della Uber Eats S.r.l. e alla scelta di gestire direttamente i rapporti con i corrieri escludendo a monte la possibilità di affidare a terzi la gestione dei riders, la società si è mossa sin da subito nella predisposizione e adozione di un Modello di Organizzazione e Gestione ex D. Lgs. n. 231/01 che mappasse anche i rapporti infragruppo ed in particolare quelli con Uber Eats S.r.l.

L’adozione di tali misure, il loro contenuto, e la rapidità con cui la società ha adempiuto alle prescrizioni imposte, hanno condotto il Tribunale a ritenere che l’applicazione della misura di prevenzione abbia “determinato concreti effetti sul piano di una consistente bonifica aziendale di Uber Italy S.r.l. e della cessionaria Uber Eats Italy S.r.l.” e, conseguentemente, a disporre con decreto 3 marzo 2021 l’immediata revoca della misura anche anteriormente al termine di durata annuale originariamente previsto con il decreto applicativo.

Dalla lettura di tale provvedimento, appare evidente come un ruolo fondamentale per la revoca della misura l’abbia svolto proprio l’adozione del Modello Organizzativo ex D. Lgs. n. 231/01, i cui contenuti sembrano essere stati vagliati approfonditamente dal collegio giudicante.

In particolare, ne vengono valorizzati specifici aspetti quali (a) la previa valutazione da parte dell’amministratore giudiziario di ogni ambito contrattuale, sia esso inerente i rapporti infragruppo, giuslavoristico o con terze parti, (b) la nomina di un OdV collegiale (composto da un avvocato penalista, un sindaco e dal Responsabile della Conformità) di durata in carica sufficiente anche in ipotesi di revoca della misura, (c) la mappatura di venti attività sensibili e l’adozione di relativi protocolli di prevenzione, (d) uno specifico protocollo per i rapporti con i corrieri con previsione del divieto di utilizzo di fleet partner e di un obbligo di copertura assicurativa in caso di incidente, (e) un protocollo salute, sicurezza sul lavoro e ambiente con specifiche previsioni in merito alla fornitura e all’utilizzo di DPI, in punto di formazione sulla sicurezza stradale, di alfabetizzazione e di monitoraggio dei sinistri.

Tutto ciò, ad avviso del Tribunale, ha deposto a favore della revoca della misura a seguito della quale Uber Italy S.r.l. potrà “presentarsi sul mercato del food delivery, mercato caratterizzato ancora da zone di vasta irregolarità, con un nuovo modello di gestione e organizzativo univocamente orientato a favorire situazioni di trasparenza e legalità nei rapporti negoziali e nella somministrazione dei servizi di food delivery, avendo svolto in tale prospettiva uno sforzo di programmazione ed economico di primaria rilevanza”.


  1. Alcune osservazioni conclusive

I decreti in esame si segnalano per la loro portata innovativa costituita dall’essere tra i primi provvedimenti a colpire quelle imprese, prevalentemente attive nel mercato della c.d. gig economy, che si caratterizzano per l’esercizio di pratiche industriali ed imprenditoriali parzialmente illecite quali, nello specifico, il ricorso a forme meno gravi di sfruttamento dei lavoratori comunemente definite di “caporalato grigio”.

Più in particolare, la vicenda in esame spicca per la scelta – tra i vari rimedi oggi a disposizione dell’autorità giudiziaria – dello strumento della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, intesa come misura finalizzata non allo spossessamento dell’azienda, ma all’affiancamento degli organi gestori finalizzato alla bonifica dell’attività di impresa da pratiche illecite. E ancora di più sono degne di nota le motivazioni poste a fondamento del ritenere tale scelta la più adeguata e proporzionata nel bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, ed in particolare del ripristino della legalità aziendale senza la compromissione dell’attività di impresa, anche nell’ottica di mantenerne inalterati i livelli occupazionali.

Di altrettanto interesse, la scelta di combinare lo strumento dell’amministrazione giudiziaria con quello del c.d. Modello 231 attraverso la previsione, tra le prescrizioni costituenti oggetto della misura di cui all’art. 34 Codice Antimafia, dell’obbligo per la società proposta di dotarsi di un modello organizzativo ex art. 6, co. 3, D. Lgs. n. 231/01 idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi nella specifica area a rischio dei rapporti con i riders.

Nonostante ciò, tale opzione non risulta priva di criticità.

A ben vedere, infatti, l’avere accertato che risultasse “palese come, di fatto, Uber indirizzasse e limitasse le capacità decisionali del fleet partner con ripercussioni sull’autonomia decisionale dei fattorini ed in aperta contraddizione con quanto previsto sia nel contratto siglato tra Uber e FRC S.r.l. […] e con la natura degli accordi di collaborazione occasionale sottoscritti dalla FRC con i vari riders” unitamente all’accertamento della piena consapevolezza da parte di Uber delle condotte di sfruttamento poste in essere ai danni dei ciclofattorini, sembra idoneo ad escludere in capo a Uber la qualifica di soggetto terzo estraneo rispetto al reato di cui all’art. 603 bis c.p.

In altre parole, da tale accertamento deriverebbe un coinvolgimento diretto di Uber nella commissione del reato di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro (in ipotesi d’accusa consumato solo dalle società fleet partner).

Ne conseguirebbe necessariamente che tale società non potrebbe più assumere la qualifica di soggetto agevolatore rispetto a persone sottoposte a procedimento penale per il reato di cui all’art. 603 bis c.p., con la conseguenza che verrebbe a mancare uno dei presupposti indispensabili per l’applicazione della misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia.

Al contrario, tale tipo di coinvolgimento diretto di Uber nella commissione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p., unitamente al dolo del reato ed alla commissione dello stesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, avrebbe dovuto portare ad una incolpazione dell’ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 quinquies D. Lgs. n. 231/01, ed alla eventuale applicazione in via cautelare della diversa misura del commissariamento giudiziale di cui all’art. 15 D. Lgs. n. 231/01.

Al di là di ciò, i provvedimenti in esame restano comunque degni di nota per essere tra i primi provvedimenti ad avere fornito delle coordinate valutative per tutte le volte in cui l’autorità giudiziaria si troverà a dover scegliere quale misura adottare, tra le varie a disposizione, per risanare attività imprenditoriali bonificandole da pratiche illegali, e a stabilire come modularla. Il tutto, avendo espressamente riconosciuto come tale azione debba avvenire secondo un delicato bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e di repressione dell’economia illegale da un lato e quelle di continuità imprenditoriale e di mantenimento dell’occupazione dall’altro.

Francesco Gaspardini

Avvocato del Foro di Bologna


[1] M. Barberio – V. Camurri, L’amministrazione giudiziaria di Uber: un possibile cortocircuito tra il sistema giuslavoristico e le misure di prevenzione, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8

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Obbligo vaccinale degli operatori sanitari e riflessi sulla compliance delle strutture sanitarie

L’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021: alcune osservazioni sui riflessi in materia di compliance delle strutture sanitarie

– pubblicato il 6 maggio 2021 –

 

  1. Premessa: origine dell’obbligo vaccinale in capo agli operatori sanitari

Fin dalla sua prima stesura il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 aveva individuato la categoria degli operatori sanitari e socio-sanitari come la prima categoria di lavoratori da sottoporre con priorità a vaccinazione in quanto estremamente esposti al contagio (e all’ulteriore trasmissione) nonché per consentire la “resilienza del servizio sanitario”. Secondo le stime contenuto del Piano si tratta di circa 1,4 Mln di lavoratori.

Ben presto però, all’interno della (variegata) macro-categoria degli operatori sanitari si sono manifestate alcune resistenze circa la volontà di sottoporsi alla vaccinazione. Le pressioni del mondo scientifico (e politico) hanno portato il Governo ad introdurre, con l’art. 4 D.L. 44/2021, l’obbligo vaccinale per tale categoria di lavoratori.

 

  1. I destinatari e i contorni applicativi dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021

I soggetti interessati da quanto previsto dall’art. 4 D.L. 44/2021 sono:

  • gli esercenti le professioni sanitarie;
  • gli operatori di interesse sanitario in strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali in strutture pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.

Nonostante la norma di legge si esprima in termini perentori, quanto disposto dalla norma, entrata in vigore il 1 aprile 2021, non può essere qualificato propriamente un obbligo vaccinale. In forza della nuova disposizione, infatti, il lavoratore interessato non viene coattivamente obbligato a sottoporsi al trattamento sanitario non voluto -ciò avrebbe presentato profili di dubbia compatibilità con la Costituzione- ma tale astensione è qualificata per legge come incompatibile con l’esercizio delle mansioni sanitarie.

Il Legislatore ha infatti inteso qualificare la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da COVID-19 come un requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle attività lavorative sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali.

Di fronte al rifiuto dell’operatore sanitario di sottoporsi alla vaccinazione, il datore di lavoro ha facoltà di assegnarlo, ove possibile, ad altre mansioni anche inferiori che comunque non implicano rischi di diffusione del contagio”.

Laddove ciò non sia possibile la struttura dovrà procedere alla sospensione del lavoratore fino all’assolvimento dell’obbligo e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Per tale periodo la legge dispone che al lavoratore non è dovuta alcuna retribuzione; egli ha il solo diritto alla conservazione del posto di lavoro.

L’unica eccezione contemplata dalla normativa è che il lavoratore non possa sottoporsi alla vaccinazione per accertate ragioni di salute: in questo caso la stessa può essere differita o omessa e il datore di lavoro potrà assegnare il lavoratore a mansioni anche diverse “in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio”.

 

  1. La valutazione del rischio di contagio in presenza di operatori sanitari non vaccinati da parte del datore di lavoro

Le due situazioni delineate dal Legislatore, il rifiuto ovvero l’impossibilità (assoluta o temporanea) del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione impongono al datore di lavoro una rimodulazione dell’organizzazione del lavoro che, fermi restando i ben noti presidi di sicurezza già da tempo certamente attuati dovrà mettere in atto gli strumenti di prevenzione individuati dalla normativa, in particolare il demansionamento e la sospensione dall’attività lavorativa (art. 4 co. 8 D.L. 44/2021).

Va precisato che tali misure riprendono quanto già previsto dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 81/08, TUSL) in relazione all’esposizione dei lavoratori ad agenti biologici ed, in particolare, all’art. 279 TUSL che, in caso di giudizio di inidoneità alla mansione da parte del medico competente, prescrive al datore di lavoro di allontanare temporaneamente il lavoratore adibendolo a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori.

Ad ogni modo, la valutazione del rischio va rimodulata rispetto alla particolare situazione pandemica in atto: in tale prospettiva, la presenza sul luogo di lavoro di un operatore non vaccinato costituisce una variabile che deve essere adeguatamente tenuta in considerazione nella riorganizzazione del lavoro. Invero, la peculiarità delle mansioni tipicamente svolte dagli operatori sanitari, che presuppongono il contatto frequente e prolungato con soggetti (i pazienti) estranei all’organizzazione lavorativa, fanno sì che l’omessa vaccinazione del lavoratore impatti sul rischio di contagio e diffusione; rischio soltanto in parte mitigato dall’uso dei DPI e dalla vaccinazione degli altri lavoratori. Com’è noto, infatti, la vaccinazione contro COVID-19 è uno strumento idoneo ed efficace per prevenire manifestazioni gravi della malattia ma non garantisce la totale immunizzazione dei soggetti che vi si sono sottoposti. Come ricorda l’ISS, infatti, tutti i lavoratori, inclusi gli operatori sanitari, devono continuare a utilizzare rigorosamente i DPI, i dispositivi medici prescritti, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico e le altre precauzioni indipendentemente dallo stato di vaccinazione.

 

  1. Profili di applicabilità della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 in caso di contagio da COVID-19 dell’operatore sanitario non vaccinato; l’importante funzione del Modello 231 quale strumento coordinatore di compliance

Laddove la struttura sanitaria non abbia preventivamente disposto l’allontanamento del sanitario non vaccinato e questi abbia contratto la malattia, sussistono gli estremi per la responsabilità ex D. Lgs. 231/01 della struttura sanitaria?

(Può risultare ultroneo precisare che il ragionamento può essere condotto solo con riferimento alle strutture private, poiché il D. Lgs. 231/2001 esclude espressamente l’applicabilità della disciplina agli enti pubblici.)

La portata di una simile questione si apprezza ancor più laddove si consideri che il contagio potrebbe diffondersi ad altri lavoratori amplificando così le conseguenze sanzionatorie, risarcitorie e reputazionali per l’ente.

Per rispondere a tale quesito occorre premettere alcune osservazioni.

Ci troviamo di fronte alla possibile configurabilità dei reati presupposto richiamati dall’art. 25septies del D.Lgs. 231/01 e cioè di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

In base alle evidenze scientifiche fin qui note circa il decorso della malattia, è possibile affermare che l’infezione da COVID-19 possa, in taluni casi, condurre a stati morbosi integranti il reato di lesioni gravi o gravissime e, nei casi più gravi, alla morte.

Tale rilievo, tuttavia, non è di per sé sufficiente a far sorgere la responsabilità 231 in capo alla struttura: occorre domandarsi se nel concetto di violazione della normativa cautelare in ambito SSL possa ricomprendersi l’omessa sospensione e/o demansionamento del lavoratore non vaccinato.

Il quesito trova risposta positiva se solo si considera il dettato normativo del già richiamato art. 279 del TUSL, senza, poi considerare gli ampi spazi entro i quali può muoversi un’imputazione per colpa generica, garantiti dalla portata applicativa piuttosto estesa dell’art. 2087 c.c.

Peraltro, a nulla rileva il fatto che il contagio possa essere derivato dalla scelta, libera e consapevole, del sanitario che ha deciso di non sottoporsi alla vaccinazione in quanto le norme dettate in tema di prevenzione sono dirette a tutelare il lavoratore, non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione ma anche quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso.

Maggiori perplessità sorgono, invece, avendo riguardo alla configurabilità del requisito dell’interesse e vantaggio in capo alla struttura in caso di contagio di un dipendente.

Con riferimento ai reati colposi come quelli di cui sopra, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’interesse e il vantaggio ricorrono allorquando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, e ciò anche indipendentemente dal suo effettivo conseguimento.

L’omessa sospensione del lavoratore non vaccinato, tuttavia, sembra incoerente rispetto al perseguimento dell’interesse o vantaggio inteso come risparmio di spesa in quanto in caso di sospensione non è dovuto alcun trattamento economico.

Ad un esame più approfondito, tuttavia, emerge che il risparmio di spesa non è necessariamente l’unica finalità perseguibile dall’ente.

La struttura sanitaria, invero, potrebbe decidere di non sospendere e/o demansionare il lavoratore non vaccinato in ragione del fatto che ciò comporterebbe una diminuzione dei servizi offerti agli utenti della struttura. Consentire al lavoratore non vaccinato di continuare a svolgere le proprie mansioni, sebbene comporti un esborso economico dovuto allo stipendio da corrispondere allo stesso, consente la massimizzazione della produttività della struttura.

In altre parole, quindi, laddove l’omessa sospensione e/o demansionamento risponda a logiche di massimizzazione della produzione, potrebbe riconoscersi un beneficio dell’ente nella violazione delle norme di salute e sicurezza sul lavoro e di qui la responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs. 231/01.

Ad ogni modo, Il tema dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 D.L. 44/2021 mette in luce l’importanza che assume l’adozione di adeguati assetti organizzativi a fini di compliance anche nel contesto delle strutture sanitarie, soprattutto se si considera la progressiva “aziendalizzazione” che le ha caratterizzate nel corso degli ultimi anni.

In tal caso, le misure organizzative svolgono la funzione principale di assicurare il rispetto degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera fissati nel Decreto del Ministro della Salute 2 aprile 2015, n. 70.

In tale contesto, il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ex D. Lgs. 231/2001, per la sua funzionalità eterogenea si profila quale “contenitore” più idoneo delle misure organizzative volte ad assicurare la compliance agli standard di legge: se ben costruito, infatti, esso risulta idoneo non solo a minimizzare il rischio di commissione di reati, bensì anche di episodi di mala gestio ed assicurare, così, gli standard qualitativi richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.

Dunque, a prescindere dalla possibile contestazione della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, la gestione del rischio di contagio da COVID – 19 diviene questione di estrema rilevanza per assicurare tali standard.

 

  1. Gli aspetti rilevanti in materia di privacy afferenti alla verifica di adempimento dell’obbligo vaccinale

Le misure di demansionamento o sospensione del lavoratore vengono adottate a seguito dell’accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale, ad esito di uno specifico iter previsto dallo stesso art. 4 del D.L. 44/2021 che involve diverse tipologie di trattamento di dati personali da sottoporre ad attento monitoraggio.

In via di estrema sintesi, l’iter prevede che entro cinque giorni dall’entrata in vigore del Decreto ciascun Ordine professionale di appartenenza degli esercenti le professioni sanitarie dovesse trasmettere l’elenco dei propri iscritti alla regione o provincia autonoma presso la quale ha sede; e che entro lo stesso termine, i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario dovessero trasmettere agli stessi enti l’elenco dei propri dipendenti.

Successivamente, le regioni e le province autonome avrebbero dovuto verificare lo stato vaccinale dei soggetti contenuti negli elenchi, per poi segnalare all’Azienda Sanitaria Locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultavano vaccinati; l’Azienda Sanitaria Locale avrebbe poi richiesto ai soggetti in questione di presentare entro cinque giorni la documentazione comprovante la vaccinazione, l’omissione o il differimento in relazione a specifiche condizioni cliniche; in caso di mancata presentazione della documentazione, l’Azienda Sanitaria dovrebbe quindi accertare il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale con immediata comunicazione all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine Professionale di appartenenza.

Dall’iter delineato all’art. 4 emergono alcune questioni di rilievo in ordine al corretto trattamento dei dati.

Prima dell’entrata in vigore del D.l. 44/2021, risultava pacifico che il datore di lavoro (di qualsiasi categoria di lavoratori) non potesse conoscere lo “stato vaccinale” dei dipendenti, prerogativa riconosciuta al solo medico competente (ad esempio, anche riguardo alle misure di sicurezza da adottare in caso di esposizione al rischio di agenti biologici di cui all’art. 279 TUSL, l’eventuale allontanamento o cambiamento di mansioni era da ricondurre ad un certificato di inidoneità del medico competente); tale posizione era stata assunta anche dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.

L’art. 4 D.L. 44/2021 sembra, però, disporre diversamente, prevedendo la comunicazione di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale da parte delle Aziende Sanitarie direttamente al datore di lavoro (e non al medico competente).

Sebbene, in tal caso, il datore di lavoro opererebbe sulla base giuridica dell’adempimento di un obbligo di legge (art. 9, c. 2, lett. b) GDPR 2016/679), ciò potrebbe presentare profili di compatibilità con la disciplina generale in materia di protezione dei dati personali,

A seguito dell’entrata in vigore del D.L. 44/2021, l’Autorità Garante ha già manifestato alcune perplessità – in particolare, con riferimento alla necessità di definire con maggiore esattezza i soggetti interessati dall’obbligo vaccinale, le tipologie di dati da trattare con specifiche garanzie per quelli dei soggetti esentati dall’obbligo, dai quali possono desumersi patologie e le modalità di realizzazione del flusso informativo ed alla mancata previa consultazione dell’Autorità prima dell’adozione -, auspicando che in sede di conversione il decreto legge assuma contorni di piena conformità.

Giova precisare che la normativa di cui al GDPR è costruita in maniera piuttosto elastica: pur riconoscendo la crescita esponenziale dei trattamenti di dati personali e la conseguente necessità di approntare misure comuni a salvaguardia della liceità dei trattamenti, in diversi passaggi del Regolamento si precisa che il diritto alla protezione dei dati debba essere sempre bilanciato con la tutela di altri diritti fondamentali, come (in questo caso) il diritto alla salute e le esigenze di tutela della salute pubblica.

Si prenda ad esempio quanto definito dal considerando (52) del GDPR: La deroga al divieto di trattare categorie particolari di dati personali dovrebbe essere consentita anche quando è prevista dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, fatte salve adeguate garanzie, per proteggere i dati personali e altri diritti fondamentali, laddove ciò avvenga nell’interesse pubblico, in particolare il trattamento dei dati personali nel settore del diritto del lavoro e della protezione sociale, comprese le pensioni, e per finalità di sicurezza sanitaria, controllo e allerta, la prevenzione o il controllo di malattie trasmissibili e altre minacce gravi alla salute; o dal considerando (54): Il trattamento di categorie particolari di dati personali può essere necessario per motivi di interesse pubblico nei settori della sanità pubblica senza il consenso dell’interessato.

Pertanto, in considerazione della emergenza pandemica in atto, è verosimile ipotizzare che le compressioni saranno giudicate, in ultima analisi, come rientranti in confini di liceità: ciò non esime, tuttavia, le strutture sanitarie dal dovere di assicurare un elevato grado di monitoraggio sulle misure tecniche e organizzative adottate affinchè venga assicurata piena correttezza nei processi di trattamento dei dati.

 

  1. Conclusioni

L’estrema diffusività del virus e le accennate peculiarità degli ambienti di lavoro ove operano i sanitari impongono estrema attenzione nella valutazione del rischio e nell’implementazione di adeguate misure organizzative.

Se, come sembrano indicare le autorità sanitarie, serviranno ulteriori richiami della vaccinazione anti COVID-19 è certo che le problematiche summenzionate si estenderanno ben oltre la data del 31 dicembre prevista dal Decreto legge.

Ne consegue l’esigenza, da parte delle strutture sanitarie, di approntare fin da subito dei protocolli operativi da attuare tempestivamente in presenza di lavoratori che non aderiscano alle previste vaccinazioni volte non solo al contenimento del contagio, ma anche ad assicurare la compliance agli standard richiesti dalla legge nell’offerta della prestazione sanitaria.

 

 

Arianna Bassi e Alberto Bernardi

Avvocati del Foro di Bologna